Scegliamo la felicità come stile di vita, senza paura che sia troppa

StatoDonna, 25 dicembre 2022. Ballano sotto ai portici di via Ugo Bassi, a Bologna. Alti, belli, giovani. Abbracciati stretti stretti mentre arrivano da lontano le note dei Guns N’ Roses di un artista di strada. Ballano al centro del marciapiede e per passare li devi scansare. Invece io mi sono fermata e li guardo intenerita e Francesco mi tira dolcemente “Mamma, sei anziana, che fai? Piangi?”

Eh, ma io sono così, ho la lacrima facile come la risata, a volte nello stesso momento. E mi piacciono assai questi due. E mi viene voglia di ballare con loro. Invece mi guardo intorno e noto che la gente li scansa ad occhi bassi, non li vede o forse fa finta di non vederli. Mi pare più probabile. Perché è difficile guardare la felicità degli altri. Intanto perché è difficile definirla, la felicità. Ci si schermisce, “No no, parliamo di serenità, la felicità è troppo”. Troppo per cosa, mi chiedo sempre. Per chi. Come se bisognasse dimostrare di esserne degni, di meritarsela. Come se non fosse un atteggiamento, uno stile di vita. Come se fosse solo l’obiettivo cui tendere e non il principio di tutto, il durante, la fine. La scintilla che funge da innesco. La brace che alimenta la fiamma.  Il fuoco che divampa. E anche la cenere che rimane, testimone silenziosa ma viva di una felicità che continua a riscaldare.

Eppure lo sappiamo che “chi ben incomincia…” ma facciamo fatica a reggere il peso di essere felici. Perché poi pensiamo di dover soddisfare delle aspettative, e subentra un sedicente senso di responsabilità borderline con un po’ di egoismo, a braccetto, perché in realtà siamo poco disposti a rinunciare a noi e alle cose rassicuranti della nostra vita, e perché nel computo della felicità non siamo mai gli unici elementi. Addendi, o fattori perché moltiplicare sarebbe meglio. Ma per moltiplicare bisogna agire, lavorare, mettersi in gioco. Sacrificare, rinunciare, scegliere. Verbi in crescendo. Parabole ascendenti verso cose migliori. Verso persone che meritano.

Ma è fatica, meglio circoscrivere. Contenere. Non dare e non darsi possibilità. Derubricare a trasgressione un sentimento che si è deciso di stroncare (dove stroncare è peggio di troncare, attenzione) sul nascere, ad esempio. Non farlo esprimere perché non si sa mai, son sempre pronti i guai. Perché la paura è più grande di tutto, questa è la verità. La paura di non saper gestire le emozioni. La paura di essere felici, magari temendo che sia per un tempo breve. O magari per un tempo lungo e questo implica un impegno, una dedizione. Mica da tutti, neanche da quelli che nel quotidiano si spendono con e per gli altri, e si dicono attenti e sensibili, e invece lo fanno per soddisfare il proprio bisogno di carezze. Ma forse neanche lo sanno.

E poi perché guardare la felicità degli altri ti fa vedere l’infelicità tua. Ti fa fare i conti con quel senso di incompiuto che ti sovrasta, come se avessi iniziato e poi smesso perché non in grado di reggere la fatica di essere felici, come se fosse un lavoro da svolgere, la coda della volpe da strappare mentre la giostra viaggia vorticosa e ti gira la testa.

Eppure lo diceva anche mia nonna che la filosofia non sapeva cosa fosse, e Aristotele era solo il nome del gatto del professore che abitava nella casa all’angolo della strada. “Fai quello che ti fa star bene, la mia bambina”, il consiglio più semplice, la considerazione più immediata, la riflessione più logica che poi abbiamo perso nei meandri di sensi di colpa autoinflitti e di elucubrazioni intellettual-religiose che ci hanno fatto sentire più intelligenti ma meno veri, e più malinconici quando non ossianici a volte.

Prendiamocene un pezzetto di felicità. Che anche se non sarà eterno sarà stato dignitoso e ci servirà come serbatoio quando saremo tanto stanchi e tristi da non riuscire ad alzarci dal divano, accartocciati su noi stessi e chiusi nel nostro dolore. E allora via, un pezzettino almeno. Senza vergogna, senza paure, senza rimpianti, senza rimorsi. E chiamiamola come vogliamo se ci fa stare più tranquilli. Perché se accettiamo di poter essere felici siamo pronti a lavorare anche per la felicità degli altri, godendone in maniera autentica. Possiamo aiutare, accarezzare, sostenere, abbracciare, afferrare, mantenere, tirare, prendere, correre, salvare. La ricetta, semplicissima, da sperimentare. Gli ingredienti, le piccole cose della vita, da custodire gelosamente.

Felice Natale, felicissimo anno nuovo.

Simonetta Molinaro, 25 dicembre 2022

 

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