Il senso di Isa per la bellezza e per le chiacchiere insieme

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Foto: Verona in

Stato Donna, 2 dicembre 2021. Arrivava puntuale che potevi rimettere l’orologio. In inverno con il cappotto di cachemire che copriva gonna a pieghe e maglioncino in tinta e sopra, come vezzo, un collettino di pizzo fermato da un cameo. Di madreperla o di corallo, dipende. In estate portava chemisier di seta con fantasie provenzali, o di lino in colori coloniali con cinturine di cuoio intrecciato.

E sopra una rebecchina con i bottoni di madreperla, che girato l’angolo tira sempre vento. E le scarpe, rigorosamente in tinta con l’abito e mai con la borsa, che era sempre a mano, da vera icona. Si sentivano i passi ticchettare. I passi e il bastone con la sua cadenza garbata, sulle chianche dei vicoli del centro, a calpestare ciuffi di erba che crescevano tra le fughe e, in verità, anche sui muri tra i tufi antichi di certe case diroccate e abbandonate del centro storico che ancora nessuno lo aveva recuperato, ma lì era il suo mondo.

 

Apriva il negozio che stava proprio davanti alla Chiesa Madre, tanto vicini che per guardare il campanile dovevi piegarti all’indietro che manco Nadia Comaneci. Quel negozio era tutta la sua vita. Di sua madre prima e poi suo e delle sue sorelle, dopo. Ed erano tutte lì, su una mensola dietro il bancone. Fotografie ormai vecchie, con cornici pesanti, e davanti i ceri, sempre accesi. Un altarino che trovavo macabro, lo confesso, anche se ingentilito da fiori freschi tutti i giorni. E ci parlava con mamma, papà e sorelle, e un fratello mancato quando lei era piccola che neanche quasi lo ricordava, ma il culto dei morti è sacro e quel posto gli spettava di diritto. Il negozio era una specie di bazar. Dentro, qualunque cosa. Ceramiche di Capodimonte e di Grottaglie, bicchieri di cristallo, articoli di cartoleria, giocattoli, cornici, bottoni gioiello. Il suo vanto, le bomboniere.

Che erano antiche e fuori moda probabilmente già quando c’era ancora la mamma. Ma lei si ostinava a tenerle in bella vista. Chiamava, una volta al mese, una ragazza a pulire tutto, sotto la sua severa ed attenta supervisione. E le faceva cambiare disposizione perché era come con le banche, diversificare va sempre bene. E non sbagliava mai, perché ogni volta sembrava ci fosse qualcosa di nuovo, e non era vero. Non faceva ordini da dieci anni, quando l’ho conosciuta e non ne ha fatti per i dieci in cui ho vissuto lì. Mi raccontò confusamente di problemi con una delle sorelle che ordinava troppo e ad un certo punto era stato necessario porre un freno. Ma non ho mai chiesto, perché piangeva mentre me lo raccontava e onestamente non ne vedevo la necessità. Così non ne parlammo mai più.

Passavo a trovarla il giovedì mattina. Ero libera perché lavoravo di pomeriggio e così, dopo aver lasciato Francesco all’asilo, e aver salutato il mio amico avvocato seduto sulla sua panchina, mi facevo fare un altro caffè, un cappuccino per lei e la raggiungevo con il vassoio del bar. Dovevo fare venti metri, di una stradina che si ripiegava su se stessa, attraversava un arco per poi sbucare all’improvviso in questa piazzetta dove i bambini giocavano a pallone, prima che arrivasse quell’arciprete che sembrava amabile, ma non gli dovevi dare fastidio. E Isa, che di arcipreti ne aveva visti assai, lo detestava. Anche lei, amabilmente. Mi faceva trovare una seggiolina di legno, piccola. Mi sedevo di fronte a lei, e mi raccontava. Mi aggiornava su tutto quello che era successo in quella settimana. Litigi, discussioni, fidanzamenti, tradimenti, separazioni. Chi aveva detto cosa, chi era andato dove, chi era tornato quando.

Tutte cose che per la maggior parte conoscevo, perché quando lavori nella farmacia in piazza, è facile che sia così, ma facevo finta di non sapere, di meravigliarmi ogni volta per qualche storia. Che lei raccontava molto velocemente, come un cronista che scrive trafiletti, liquidando la faccenda con una battuta e questo toglieva al tutto l’aspetto del pettegolezzo, che non riesce mai ad appassionarmi. E perché in realtà ogni volta qualcosa era pretesto per raccontarmi della sua vita. Di quando era bambina, e poi ragazza, in quel posto ricco di storia e di tradizioni, e di saggezza custodita e tramandata. Fiera della sua famiglia e di suo padre che era stato segretario comunale, ma soprattutto che era vissuto beato tra le donne, in una di quelle famiglie dove non si sa come mai, ci sono sempre stuoli di sorelle e cognate zitelle pronte a prendersi cura dell’unico uomo della famiglia che, se era intelligente, viveva da re.

E così era stato per suo padre, che era diventato per lei un mito e magari lo meritava. Ma la aveva condannata alla solitudine, con le sue idee forse troppo moderne. Nonostante i corteggiatori, che erano stati tanti, perché Isa da giovane era stata bellissima. Lo era anche adesso, con una pelle invidiabile, bianca, e senza una ruga nonostante avesse più di settant’anni, perché mai si era esposta al sole e non era mai andata al mare apposta per non sciuparla. E la curava con sapienza. Ogni domenica si faceva due maschere.

Foto: Dreamstime

La prima idratante, la seconda nutriente e mentre aspettava che agissero, si faceva la manicure e si depilava le sopracciglia. E poi quei capelli. Non ho più visto una persona anziana con quei capelli. Aiutata da un bravissimo parrucchiere riusciva a riprodurre il suo colore naturale, un biondo cenere, ma era la consistenza che mi colpiva e la morbidezza. Uovo e olio d’oliva, prima delle maschere sul viso. Poi risciacquava e con i capelli bagnati passava al resto della sua beauty routine, che…scansatevi influencer su YouTube. Adoravo il modo in cui si prendeva cura di sé e degli altri.

Quando Francesco faceva il tempo prolungato a scuola, certi giorni andavo da lei a mangiare, perché non ci poteva neanche pensare che il mio pasto fosse una barretta di cioccolata. E imbandiva la tavola come faccio io a Natale. Primo, secondo, due contorni, il vino, il dolce. Ogni giorno, anche quando era sola. E apparecchiava con le tovaglie buone e il servizio di piatti importante. Si circondava di bellezza e di attenzioni e non ci voleva molto a capire come mai. Perché quella casa, la stessa dove era cresciuta, era enorme e vuota. Vuota di quello che sarebbe potuto essere, di quello che non era riuscita ad avere, di quello che aveva rifiutato. Non era sola, si sentiva sola. Le amiche, i vicini di casa, tutti correvano se necessario e anche quando non lo era. Tutti, perché era gentile, simpatica, e generosa. Ma non sempre basta.

E allora, quando mi raccontava del suo ultimo fidanzato, si intristiva un po’. Percepivo il rimpianto. Lo aveva tenuto sulla corda troppo tempo, troppo sicura dei suoi sentimenti. Lo aveva trattato in modo più moderno, giocando a farsi corteggiare che certe volte è la parte più bella della storia, quando ancora non ti scontri con la realtà del quotidiano. Quando c’è quella tensione fisica che ti fa sentire vivo. Forse lui era più tradizionalista e non aveva colto. Lei diceva che non la aveva capita ma io pensavo, e lo penso ancora, che invece lui abbia avuto paura. Che forse era meglio una donna meno impegnativa.

Diceva Isa, dandosi la colpa, che era stata troppo esigente. Che avrebbe dovuto lottare per Vincenzo e andarselo a riprendere, quando poi lui si era fidanzato con una ragazza più rassicurante, e fonti certe miraccontarono in camera caritatis che lui si era pentito subito, ma ormai era tardi e il perbenismo di un posto con più di sessanta chiese aveva vinto. E infatti lui si era sposato con “la monaca”, come la chiamava Isa, con un’ironia amara, anche adesso quando quell’altra passava davanti al negozio e si guardavano con odio. “Nah, la moglie del mio fidanzato”, diceva. Moglie che poi diventò vedova e Isa pianse calde lacrime, di nascosto e non si affacciò neanche sulla soglia del negozio quando arrivò il carro funebre e lei abbassò solamente la serranda a metà, per rispetto.

Mi diceva che anche dopo di lui, forse si sarebbe dovuta accontentare, districandosi tra quegli uomini che le si avvicinavano, e una volta in particolare era stata lì lì per cedere ma c’era sempre un ma. E poi, basta. La ascoltavo e mi dispiaceva e pensavo che lei non sarebbe stata mai una di quelle mogli scontente e petulanti di mariti invisibili e brontoloni. Perché avrebbe saputo tenere vivi i sentimenti, con la sua capacità di prendersi cura di sé e degli altri, l’attenzione ai particolari, la giocosità del carattere e poi, il rispetto. Ecco, il rispetto. Che toccavo con mano ogni volta che Achille, notaio in pensione, costretto a capitolare davanti all’ultimo di quei “ma”, passava a salutarla, certe volte il giovedì mattina. E si davano del “voi”, anche quando per salutarsi lei gli accarezzava il viso con dolcezza e lui poggiava la sua mano su quella di Isa. E a me e si stringeva il cuore e mi chiedevo perché e mi domandavo e lo faccio ancora, se puoi rimpiangere così tanto qualcosa che non è stato, e qualcuno che non hai avuto. E credo di sì.

Simonetta Molinaro, 2 dicembre 2021