L’amore di Pietro nella nebbia, velo di un’esistenza tradita

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Foto_ PixelsTalk.net

Stato Donna, 23 ottobre 2022. Dopo Ferragosto in paese iniziavano a dire “Adesso arriva la nebbia al monte, dottoressa e poi è già inverno”. Ma a me la nebbia piace, se non sono in macchina, e così non mi spaventava andare a passeggiare, con Pietro poi che la nebbia la adorava e mi aspettava proprio sotto al monte, e andavamo tra i sentieri e quelle strade che si interrompevano bruscamente, arrivando di botto sul crinale che si affacciava morbido su quella valle colorata, a quadri gialli e verdi, con pochi alberi vicino a case che da lontano sembravano casette, quelle disegnate dai bambini, e le finestrine con le imposte con i cuori e le tendine fermate dai nastri e il sentiero sinuoso che arriva sulla porta. E mucche sparse a pascolare, a gruppetti di due o tre che camminavano pigramente e il vento portava con sé il rumore dei campanacci.

Ma tutto questo si vedeva prima del quindici di agosto, quando c’era la grande festa in paese, con la Madonna portata in processione e le coperte dei corredi stese per rispetto ai balconi e le luminarie che sembrava Natale, e i parroci della parrocchie limitrofe che venivano ad aiutare il nostro perché invece era come a Pasqua, ci si doveva confessare tutti, ed era meglio farlo con un prete che non si conosceva ed era più incline a concedere l’assoluzione e non si rischiava di incontrarlo per strada, che poi certe volte si doveva abbassare lo sguardo perché si era stati assolti, sì, ma si sentiva lo stesso la riprovazione.

E Pietro non faceva eccezione. Sapeva che non sarebbero mai bastate quelle Ave Marie e poi, cavolo, quella volta non si era nemmeno ricordato l’Atto di dolore, che invece lo sapeva a memoria, ma era andato in confusione sotto lo sguardo severo di don Matteo, “Ma non si poteva chiamare in un altro modo?”, mi diceva e lo faceva ridendo e ridevo anche io soprattutto perché il nostro don Matteo era più simile a Bud Spencer che a Terence Hill e infatti, con le lacrime agli occhi per le risate, gli dicevo che la sua unica speranza era andarlo a trovare portandogli molte cose da mangiare. E da bere, anche. Corromperlo, insomma, che non è proprio una cosa santa, ma non mi veniva in mente altro.

Ci pensavo quel pomeriggio di ottobre, mentre camminavo e si alzava la nebbia e gli alberi, le case, anche le mucche erano solo un ricordo. Reperti di memoria fotografica. Pensavo a Pietro, che non lo vedevo da un po’ di giorni. Pensavo che mi sarebbe piaciuto chiedergli perché avesse parlato a don Matteo del suo segreto. Che già ne era a conoscenza, naturalmente, ma faceva finta di niente. Io lo sapevo perché me lo aveva raccontato un pomeriggio di primavera, quando camminando tra fiori bianchi di mandorli e rosa di magnolie, eravamo arrivati a casa sua, che si trova in un posto dove ci sono dieci case, dieci. E una chiesetta dove don Matteo arrivava il sabato pomeriggio a dire Messa, tanto presto che per la Chiesa neanche forse valeva per la domenica, ma dopo doveva andare in un altro posto e poi alle cinque essere in paese, dove lo aspettavano, dicendo il Rosario, tante fedeli. E, in mezzo a loro, anche la donna che Pietro amava.

Pietro che la Messa l’ascoltava da un’altra parte, con sua moglie, la quale custodiva anche le chiavi di quella chiesetta piccola piccola ed era quindi la prima ad arrivare, e faceva trovare al don l’altare addobbato, con le rose del suo giardino e i glicini che cadevano dal portico, e la tovaglia bianca con i pizzi. E si sedeva davanti, al primo banco, con Pietro, e all’offertorio gli faceva cenno di prendere il cestino e lui lo faceva, per abitudine e per non discutere.

Perché, mi raccontò, lui di discutere non aveva voglia. Era una scelta, quella. Eravamo seduti da soli sotto al pergolato di glicini, avevamo fatto la nostra passeggiata e c’era il tramonto, con il sole che filtrava attraverso le foglie e i fiori e lui che parlava con la testa bassa, tra le mani e diceva “Non volevo, davvero.” E io non sapevo a cosa si riferisse esattamente. Non conoscevo la storia, sapevo solo quello che in paese si raccontava, perché anche in farmacia certe volte ci si va a confessare, e soprattutto a raccontare i peccati degli altri. E così mi avevano parlato di quella storia. Della sorella sbagliata. L’altra.

Quella che era stata la prima fidanzata di Pietro. Quella che ad un certo punto lo aveva lasciato ed era andata a Torino. Si era sposata, aveva avuto un figlio, poi era rimasta vedova ed era tornata al paese. Una vita in cinque frasi. Troppo poco per capire.

Quel pomeriggio Pietro mi raccontò che lei un giorno gli aveva detto che sarebbe partita, e non aveva voluto sentire storie. E nemmeno lacrime, preghiere, minacce. Niente. Aveva telefonato ad una sua cugina che viveva già lì ed era partita. E lui l’aveva seguita, ma invano. Era tornato, e non ne aveva parlato più con nessuno. Lo consolava la sorella di lei. Più giovane, timida, silenziosa, le assomigliava tanto fisicamente ed era stato inevitabile sposarsi. Lei contentissima, lui frastornato, con quella copia in miniatura della donna che amava. Lei che imperterrita faceva finta di non accorgersi di quando lui la guardava e vedeva sua sorella. Di quando si sbagliava nome e poi la guardava mortificato, ma lei aveva già girato la testa per non fargli vedere la sua, di mortificazione. Di quando le diceva “Ti ricordi quella volta?” e invece sovrapponeva le storie e le vite, ma lei diceva “Certo che mi ricordo” e lui voleva sprofondare.

“Vorrei che mi lasciasse”, aveva detto in confessione a don Matteo. “Vattene tu, se hai il coraggio” aveva risposto il don. L’amore di tua moglie basta per tutti e due, quell’altro, nemmeno per uno è bastato”. E allora Pietro lo aveva guardato e, senza parlare, aveva pensato al sacrificio di chi aveva indovinato tanti anni prima quei sentimenti nascosti e aveva preferito rinunciare ai progetti, ai sogni, a lui.

E con lei, da quando era tornata, ne avevano parlato una volta soltanto. Dopo, mai più erano rimasti soli. Ma non era necessario, era sufficiente incontrarsi per caso. Alla posta, al bar, al mercato. E con tutti che li osservavano, facevano finta di nulla ma ogni volta era come se rinnovassero certe promesse, che solo loro conoscevano, ma tutti intuivano, curiosi certo, e anche un po’ invidiosi. “Pietro, perché non la lasci tua moglie?” gli avevo chiesto quel pomeriggio. Non mi aveva risposto e avevamo cambiato discorso.

Poi invece, quel giorno, sbucando nella nebbia mi aveva guardato e mi aveva risposto. Con le parole che gli aveva detto lei, quell’unico pomeriggio in cui si erano ritrovati e i baci avevano il sapore dolce del passato e della gioventù e manco sentivano quello salato delle lacrime. E quando lui le aveva chiesto se si fosse mai pentita, gli aveva risposto che nella vita si riceve donando. Che quel sacrificio era stato il suo dono alla sorella minore, cresciuta alla sua ombra, con i genitori preoccupati che rimanesse sola. Gli aveva detto che la dimensione della vita è l’amore, e che è su di esso che tutto si deve misurare. Che l’errore più grande è pensare a ciò che non abbiamo avuto, invece di riflettere su ciò che siamo riusciti a dare e a ricevere, in cambio. Perché è così che funziona. Stava bene, gli aveva detto

“E tu, Pietro? Stai bene?” gli ho chiesto. “Io sto bene solo in questa nebbia. Quando non vedo niente, e nessuno. E soprattutto non vedo la mia vita, tradita, e non vedo il mio amore, perso per amore”.

Simonetta Molinaro, 23 ottobre 2022