La vita può allontanarci ma l’amore continuerà…dopo 54 anni

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Stato Donna, 7 agosto 2022. Sono, dice parlando piano, tutti uguali i giorni da quando se n’è andato. Anche le notti, e poi le albe che sorgono sempre nel medesimo modo, con dolcezza, ed entrano timide nella camera da letto, la stessa da quando si sono sposati, con quei mobili che allora erano tanto belli, e importanti, e ora sono solo vecchi, e le ante dell’armadio sono da registrare, ma nessuno chiama il falegname.

E si alza, perché ad una certa età si dorme poco, e poi è meglio andare di là e guardare dalla finestra il mondo che parte. Anche se lei si sente immobile, cristallizzata nel suo dolore e nella sua solitudine e mentre beve il primo caffè della giornata, da sola, quel rito ormai saltato, pensa che a nessuno può più raccontare per la centesima volta della signora nel palazzo di fronte, al quinto piano, che stende il bucato solo il venerdì, e sempre nello stesso ordine: le lenzuola, le camicie, la biancheria intima… e nessuno a lei dirà per la centesima volta “Eppure, una spiegazione ci deve essere” per poi ridere complice.

Le parole restano sospese o forse le pronuncia ad alta voce in realtà, ma non se ne rende conto e comunque si risponde da sola e quando se ne accorge scuote la testa, poi va in bagno che fra poco esce, almeno non pensa.

E mentre cammina verso il mercato, dentro di sé sorride e pensa che una cosa buona c’è stata delle mascherine che siamo stati costretti ad indossare e lei ancora un po’ le usa. Il fatto che puoi parlare da sola e nessuno se ne accorgerà, con un po’ di pratica. Puoi chiedere “Cosa vuoi mangiare oggi?” e aspettare una risposta che, naturalmente, non arriva. Ma tu lo sai benissimo, è il tuo modo di elaborare il lutto. Fai finta, e lo fai con consapevolezza. Non hai mica perso il senno, solo il marito, dopo cinquanta anni di matrimonio e quattro di fidanzamento, una vita.

Una vita di alti e bassi. Mica vogliamo cavalcare la retorica, non è facile andare sempre d’accordo. Ma, in fondo poteva andare peggio, ti dici. Alla fine sono bastati un po’ di impegno e un po’ di fortuna. Si può fare, dai. È la fortuna che ha tradito, è lei che è venuta meno. Poi così, all’improvviso. Il giorno prima era sano, il giorno dopo malato. Oncologico.

Ma che maniere sono? Non si fa, non è educato. E tu, all’educazione ci tieni. È lei che ti ha frenata quando il primario ha comunicato a tutti e quattro la diagnosi, guardando TE però negli occhi e dicendoti “Signora, diciamoci la verità, che aspettativa di vita poteva avere suo marito a settantasette anni?”

Ti ha uccisa in quel momento, sei morta prima di tuo marito, ma prima di morire volevi tirare in testa al primario quel vaso di fiori finti che aveva sulla scrivania. Finti come i suoi capelli. E come i suoi occhi, gelidi e spenti. Ti sei trattenuta, ma hai giurato odio eterno.

Sarai anche morta quel giorno, ma ti sei fatta forza, e prendevi coraggio quando lo vedevi meglio e sprofondavi nella disperazione quando stava male. Diciassette mesi così. Un numero orrendo. Un periodo, orrendo. Poi si è arreso, e ti ha lasciata sola. I figli, i nipoti per carità, ci mancherebbe. Ma hanno le loro vite… vanno, vengono, tornano, partono.

Io e te dovevamo invecchiare insieme, ce lo eravamo detto. Eravamo anche andati a vedere quella casa di riposo in montagna, che poi “casa di riposo” è un nome orribile ma meglio di “residenza protetta” che veramente toglie il fiato, e ti fa sentire vecchio, inutile e incapace anche. Sa di minestrina di dado, che a me fa pure schifo, e di borotalco che peggio mi sento.

Invece quella “struttura”, ecco meglio, in montagna era proprio bellina. Con il tetto di legno, e i gerani a palla nei vasi, appesi alle finestre. Certo, l’odore era sempre quello della minestrina di dado, però dai sembrava uno di quei rifugi dove andavamo quando i bambini erano piccoli, ti ricordi? Che camminavamo per ore per raggiungerli, e lungo la strada raccontavamo loro, di nuovo, del nostro matrimonio in quell’abbazia preromanica e poi del viaggio di nozze durato più di un mese, che oggi chi se lo può permettere? E i bambini dicevano “Bastaaaaaa” e ridevano e anche noi ridevamo.

E ridevamo anche perché non ci chiamavi mai per nome. Dicevi “Moglie, figliuccia, figliuccio”… “Papà, ma che problemi hai?” ti chiedevano con le lacrime agli occhi e anche oggi lo ricordano con le lacrime gli occhi. Mah. E ti ricordi come ti prendevamo in giro quando per parlare di uno di noi quattro usavi il plurale? “Abbiamo la mononucleosi”. “Abbiamo cucinato la parmigiana”

Fino al massimo “Abbiamo partorito” il giorno in cui è nato Francesco che in ospedale tutti facevano gli auguri più a te che a Simonetta. Certo, potevi aspettare un po’, che cavolo. Avevi promesso a Ludovica che l’accompagnavi tu a fare il richiamo di quel vaccino, com’è che si chiama ? E magari, aspettare la laurea di Francesco. I cinquanta anni di Gianluca, ecco. Lì dovevi puntare.

Che poi, te ne sei andato a febbraio, e a giugno i cinquanta anni li compiva Simonetta. Che si è messa una mia giacca rossa di quando avevo trenta anni, te la ricordi, l’abbiamo comprata a Bologna, in quella stradina che si affaccia su via Indipendenza, e si è fatta la torta da sola, la zuppa inglese, la tua preferita. Ha detto “Così siamo tutti qui”, però piangeva mentre lo diceva. Non mi sembrava troppo convinta.

Dai, non si fa così, potevi aspettare un po’. Che maniere. Ci hai lasciati così, a me e a questi due poveri figli che siamo tutti e tre ancora un po’ sgomenti. Noi, che oggi che quando parliamo di te, piangiamo. Plurale, ma claudicante. Vabbè, senti marito mio, che dici se ti faccio un bel pranzetto oggi, per festeggiare questi nostri cinquantaquattro anni di matrimonio?

Simonetta Molinaro, 7 agosto 2022