RUBRICA. Scuola, percorsi possibili nella gestione della classe
Statoquotidiano.it, 15 settembre 2024. SCUOLA – Si fanno molti discorsi sulla scuola, pochi sul mestiere di insegnante.
Fra alunni che cambiano, nuovi bisogni e riforme mai fatte o malfatte, la questione è più che mai complessa.
Stranamente si scrive poco su un problema concretissimo, che rimane cruciale per la gran parte degli insegnanti: la gestione della classe.
Spunti per analizzare un tale aspetto possono essere variabili cruciali come:
• il ruolo e la responsabilità sociale del docente
• i problemi di stress e di autostima
• l’autorevolezza
• la programmazione e i modi di fare lezione
• le dinamiche di classe e le strategie per
governarle
• i saperi, le abilità e le competenze
• la valutazione degli studenti
• le relazioni che strutturano la funzione docente.
Ma soprattutto il tema della gestione della classe implica il considerare una serie di fattori, quali: la capacità di autocontrollo dell’adulto; la comunicazione, rispetto alla quale è necessario riflettere sull’autorevolezza dell’insegnante e su come agire per ottenerla; la necessità di avere una progettualità, dove si parla di programmazione e dei diversi modi di fare lezione; conta anche la mera gestione del gruppo, che porta a riflettere sull’importanza di considerare le dinamiche di classe e le strategie per governarla; un ruolo fondamentale, seppure non esclusivo, lo riveste poi la padronanza della materia di insegnamento, dei saperi, delle abilità e delle competenze che la riguardano; anche la fase della valutazione ha il suo peso rispetto alla gestione della classe; last but not least, conta la consapevolezza di stare gestendo delle relazioni, dei rapporti che intessono la funzione docente, con colleghi e studenti, quelli reali che spesso sono diversi da quelli ipotizzati nei libri e nei corsi universitari, tanto che in particolare le classi, dopo i primi giorni, si rivelano difficili da gestire e le poche soddisfazioni iniziali spesso non sono sufficienti a compensare le molte frustrazioni successive.
E forse questo atteggiamento di sfiducia non è del tutto immotivato.
Basti vedere i risultati delle indagini internazionali che, ripetutamente, ci collocano agli ultimi posti tra i Paesi più avanzati, riguardo alla condizione docente, per trarne motivate ragioni di sconforto.
Va detto anche, purtroppo, che quando l’insegnamento viene scelto in mancanza d’altro, come un ripiego, non c’è da aspettarsi una grande motivazione professionale. Semmai, in tale caso, è più facile che emergano i cosiddetti delusi, quelli che cambierebbero lavoro “perché c’è sempre di meglio e nella scuola è sempre il solito teatrino”.
Però, lasciatemelo dire, è diventato un rito quello di lamentarsi a tutti i costi.
In realtà si esagera. E poi, che senso ha deprecare, se non si cercano le ragioni che stanno all’origine di un problema? Facendo così, si può solo fondare una confraternita del dolore, ma non c’è nessuna speranza di migliorare.
Ottenere attenzione, dai ragazzi, constatare interesse e impegno
costanti è sempre più difficile, certo.
Ma di chi è la colpa?
Oppure, è il caso di parlare sempre di colpe?
Magari non è questione di colpe, ma di prendere atto dei cambiamenti intervenuti. I dati parlano chiaro: le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in particolare i computer, sono entrate praticamente in tutte le case. Il collegamento an Internet c’è in una casa su due. Per quanto riguarda poi la comunicazione nel web, assistiamo a un vero e proprio boom di baby navigatori: ormai un bambino su tre al di sotto degli 11 anni chatta regolarmente. Per quanto riguarda gli adolescenti i dati sono ancora più eclatanti. Sono sempre di meno quelli che non chattano, non utilizzano YouTube o non hanno un blog in Internet. Più di un adolescente su due è iscritto a Facebook.
Non è un caso allora che si parli di «nativi digitali», per differenziarli dagli adulti e ancor più dagli anziani, i «migranti digitali», i quali, nati in un mondo senza Internet e tecnologie della comunicazione, devono apprendere con sforzo e spesso con diffidenza quelle abilità che al nativo risultano semplici e spontanee.
Tra adulti e ragazzi, insegnanti e alunni, nativi e migranti digitali, dunque, la comunicazione non è facile, perché c’è un «fossato digitale» che li separa.
Però il discorso sulle nuove tecnologie della comunicazione non è così semplice. La fruizione digitale è, o può essere, anche positiva, proprio per la sua
interattività.
Qual è allora la funzione docente e quale il suo ruolo nella gestione della classe?
Pensate a quanto è paradossale la situazione attuale: tra gli insegnanti si diffondono pessimismo e sfiducia proprio nel momento in cui la scuola raggiunge la sua massima espansione.
Ci si ripiega nostalgicamente sui bei tempi andati, dimenticando che la grande maggioranza dei ragazzi di una certa fascia d’età in passato era di fatto esclusa dalla scolarizzazione superiore. Certamente gli obiettivi sono cambiati: l’istruzione non è più in grado di
garantire privilegi sociali, la scuola non può più offrire sbocchi lavorativi corrispondenti ai titoli di studio acquisiti. La funzione stessa dell’insegnamento è cambiata.
Il vero rischio è che la società, e con essa gli alunni, vadano in una direzione e la scuola in un’altra. O comunque che si resti indietro, allargando sempre più il fossato di cui si diceva.
È evidente la preoccupazione che la scuola non riesca più a stimolare negli studenti una capacità di apprendimento durevole, che presuppone curiosità e interesse costanti.
Il fatto stesso che da almeno dieci anni — ma si potrebbe andare più indietro, ai famosi «Libri bianchi» di Delors e Cresson — l’UE continui a fare raccomandazioni è indicativo non di forza, ma di una certa impotenza.
E la perdita dell’autorità da parte della scuola agli occhi dei ragazzi trascina con sé diverse cose importanti: la perdita del senso del limite, del valore della fatica e della sfida, della capacità di sostenere lo sforzo, della concentrazione e dell’impegno.
Valutando ciò che si perde, si sarebbe tentati di riproporre il tradizionale ruolo paterno.
Ma non è più tempo di padri autoritari.
La difficoltà nell’intercettare l’attenzione e la motivazione degli studenti non è un problema solo italiano, comunque.
Nei Paesi scandinavi e anglosassoni i grandi investimenti nelle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione avevano e hanno l’obiettivo di fronteggiare il forte senso di estraneità manifestato dagli studenti verso una scuola che nei contenuti, nei metodi e nell’organizzazione non riesce più a catturarne interessi e motivazioni.
L’apparente indisponibilità degli studenti è certamente un fattore decisivo che può spiegare il diffuso malessere dei docenti, però è necessario indagare se ci possono essere altre ragioni che motivino questo fenomeno preoccupante.
E inoltre, come spiegare la fatica crescente nel mobilitare l’attenzione e la motivazione degli allievi?
Prima ipotesi: la perdita di prestigio sociale
Alcuni recenti studi hanno evidenziato, a tal proposito, che quando si ha un problema e si vuole ottenere un consiglio, solo un esiguo 2,6% degli studenti, per giunta in calo rispetto all’anno precedente, si rivolge a un insegnante, mentre i veri interlocutori sono gli amici o i compagni di classe (50,2%).
Per i genitori però le cose non vanno meglio: ci si rivolge ancora abbastanza alla mamma, anche se significativamente di meno (dal 41,9% al 36,45%), e piuttosto poco al papà (addirittura pochissimo le ragazze).
Di segnali contraddittori del resto ce ne sono diversi.
Se prendiamo la terza indagine dell’Istituto IARD (Cavalli e Argentin, 2010), vediamo che la percentuale dei docenti che scelgono di insegnare è in costante aumento.
È vero che nella primaria sono molti di più, mentre la «vocazione» sembra declinare progressivamente quando si passa alle secondarie di primo e di secondo grado. Rimane però il fatto che, anche nella secondaria di secondo grado, i «vocazionali impegnati» sono passati dal 25% nel 1999 al 36% nel 2008. Gli insegnanti che vengono definiti «vocazionali non impegnati» sono circa un quarto della categoria, sia nel primo che nel secondo ciclo. Nelle secondarie sono un po’ di più: il 28%.
Seconda ipotesi: un modello di insegnamento che non funziona più.
Una ragione in grado di spiegare questa crisi di ruolo del docente può certamente essere individuata in un tipo di insegnamento non più adeguato ai tempi e ai nuovi bisogni.
Non è certo un’ipotesi nuovissima. Un’indagine di De Landsheere, pubblicata per la prima volta nel 1969 e divenuta un classico della ricerca sull’insegnamento, denunciava come fatto negativo che «..ovunque, nel Belgio come nella Costa d’Avorio, nella scuola elementare come nella media, gli insegnanti applicano gli stessi schemi d’insegnamento e consacrano l’essenziale del loro tempo a trasmettere nozioni e a organizzare la vita di classe» (Bottani, 1994).
Un’altra indagine, questa volta dell’OCSE (TALIS, acronimo che sta per Teaching and Learning International Survey), condotta nel 2009 sugli insegnanti di 25 Paesi dell’area OCSE, compresa l’Italia, confermava che l’orientamento pedagogico prevalente nei Paesi economicamente più avanzati, ma più accentuatamente nel nostro, rimane di stampo tradizionale: direttivo, trasmissivo e frontale. È un modello comunicativo che si può definire transazionale o del tubo (Ong, 1986), in quanto presuppone che l’informazione scorra dall’emittente al destinatario come dentro una tubatura, senza subire l’intervento interpretativo del ricevente che lo selezioni o lo alteri in qualche modo.
Si potrebbe supporre che un orientamento pedagogico di stampo tradizionale dipenda dall’età dei docenti, che ovunque in Occidente è piuttosto elevata: quasi il 60% degli insegnanti ha più di 40 anni. In Italia questo fattore è ulteriormente accentuato: la percentuale di docenti ultra- cinquantenni è da noi il 52%, contro una media del 27% negli altri Paesi indagati da TALIS.
Ma il metodo tradizionale stravince anche presso gli insegnanti neoassunti, compresi quelli che hanno alle spalle percorsi professionalizzanti come Scienze della formazione e SSIS.
Non è dunque l’età anagrafica il fattore che fa propendere verso metodi più innovativi, imperniati cioè sulla partecipazione attiva degli studenti, più aperti alla progettualità, all’autonomia e alla ricerca, ma, al contrario, sono semmai gli anni di esperienza che, seppure in percentuali basse, spingono verso la ricerca di nuove strade.
L’attaccamento alla didattica tradizionale, in generale molto diffuso, riguarda in particolare alcuni insegnamenti, come ad esempio la matematica, mentre i docenti di materie umanistiche e artistiche, anche se in percentuali molto limitate, sono più propensi a pratiche di insegnamento più innovativo. Inoltre le insegnanti, che in Italia sono il 78% dell’intera categoria, sembrano più restie dei colleghi maschi ad aprirsi all’innovazione.
Il Consiglio Europeo,invece, già nel 2000, a Lisbona, affermava la necessità di modernizzare i sistemi d’istruzione dei Paesi membri, per rispondere alla svolta epocale costituita dalla globalizzazione e dalla nuova economia basata sulla conoscenza. Per fare fronte a tali sfide, un anno dopo, nel 2001, si sottolineava che «si è modificato il ruolo degli insegnanti e dei formatori; essi continuano a impartire l’insegnamento, ma al giorno d’oggi il loro ruolo è da rivedere e da intendersi semmai come quello del tutor o del facilitatore che guida gli allievi nel loro percorso individuale verso la conoscenza» (Consiglio dell’Unione Europea, 2001, 2.1.1).
La fatica di insegnare può certamente dipendere dal fatto che si pratica ormai un insegnamento inadeguato.
Ma sarà solo «colpa» degli insegnanti oppure si dovranno cercare altre ragioni?
Terza ipotesi: un retroterra culturale povero
Sono ampiamente noti i risultati delle indagini OCSE-PISA sul rendimento scolastico degli studenti quindicenni in lettura, matematica e scienze, che ci collocano ripetutamente (l’indagine viene fatta ogni tre anni) tra gli ultimi posti nella classifica delle competenze.
Nella scuola è convinzione diffusa che il fallimento scolastico e la scarsa acquisizione di competenze si debbano ricercare nei problemi che i bambini e i ragazzi incontrano in famiglia.
Tuttavia, se guardiamo i dati raccolti dall’Unicef del 2007 (Report Card Innocenti n. 7), sembra di poter escludere questa ipotesi.
Vediamo perché. Nel rapporto venivano analizzate, tra molte altre cose, le relazioni degli adolescenti con la famiglia e i coetanei. L’Italia risultava al primo posto tra i 21 Paesi OCSE analizzati, nonostante occupasse solo il diciassettesimo posto per quanto riguardava la relazione coi coetanei. Questo dato mette in evidenza il fatto che, statisticamente, il rapporto dei bambini e degli adolescenti con le famiglie è ottimo, o comunque è percepito tale, e quindi non può essere additato a causa dei bassi rendimenti scolastici. I bambini e gli adolescenti italiani hanno rendimenti scolastici scadenti non perché sono turbati da drammi familiari, ma per altri motivi.
Quali?
Una ragione importante si potrebbe ricercare nel livello di istruzione della popolazione adulta, e quindi dei genitori, che abbiamo nel nostro Paese.
Si è dimostrato infatti che c’è un rapporto direttamente proporzionale tra il titolo di studio dei genitori e il grado di competenza alfabetica funzionale (literacy) dei figli. Diverse ricerche hanno dimostrato che in effetti nel nostro Paese il livello di letteralismo è estremamente basso. Tra le diverse indagini, ne possiamo richiamare una particolarmente indicativa realizzata in Italia nel 2003-2004 su un campione di 6853 cittadini di età compresa tra i 16 e i 65 anni, nell’ambito di una ricerca comparativa internazionale promossa dall’OCSE, che ha coinvolto sette Paesi: Bermuda, Canada, Italia, Norvegia, Svizzera, Stati Uniti e Nuovo León Mexico (Adult Literacy and Life skills – ALL; www.indire.it). Venivano indagati quattro tipi di competenze-abilità: competenza alfabetica funzionale relativa alla comprensione e utilizzo di testi in prosa e documenti sotto forma di grafici e tabelle, competenza matematica funzionale e capacità.
Per ogni competenza la popolazione veniva distribuita su cinque livelli: il primo, il più basso, indicava competenze-abilità estremamente modeste e fragili, il livello 5 invece la piena padronanza degli alfabeti indispensabili a garantire un agire efficace nell’attuale società della conoscenza.
Se prendiamo ad esempio il primo aspetto, la competenza alfabetica funzionale, al primo livello troviamo il 46,1% della popolazione, al secondo il 35,1%, al terzo il 16,5%, al quarto e quinto livello, considerati insieme, il 2,3%. In pratica, sommando i primi due livelli, otteniamo che l’81,2% della popolazione italiana, escludendo quindi gli anziani sopra i 65 anni, è semianalfabeta funzionale.
In una recente indagine sui docenti neoassunti nel 2009 (Fondazione Giovanni Agnelli, 2010, p. 201), veniva richiesto quali fossero le competenze ritenute importanti o molto importanti per un professionista dell’insegnamento.
È emerso chiaramente come l’identità professionale, e stiamo parlando di docenti neoassunti, continuasse e continui a basarsi sul bagaglio culturale dell’insegnante.
In questa prospettiva, cioè con un ruolo dell’insegnante imperniato su una centralità culturale-trasmissiva (diciamo pure: esclusivamente sull’istruzione), la capacità della scuola di collocarsi efficacemente in contesti sempre più eterogenei e mutevoli sembra venire meno. Le dimensioni educativa, volta a orientare l’individuo nella cura delle relazioni, e formativa, che dovrebbe puntare sulla costruzione di una propria identità personale fondata sul senso di responsabilità e sulla competenza, sempre più rilevanti, come peraltro segnalavano anche l’OMS e l’UE, non sembrano però trovare l’attenzione che meritano nel modo italiano concepire la scuola.
Primi spunti
Sulla concezione del ruolo che la scuola dovrebbe svolgere nella gestione della classe e nel contribuire a costruire una società più giusta, molto incidono le abitudini consolidate e in particolar modo l’approccio nel fare lezione più praticato.
Il più condiviso, lo abbiamo visto, è quello trasmissivo. Possiamo dire, con una certa semplificazione, che il suo modello di riferimento è il libro: il docente espone contenuti e teorie in una successione analoga ai capitoli e ai paragrafi di un libro. La forma logica con cui si svolge il discorso è di tipo esplicativo-deduttivo. Nel secondo modello, quello interattivo, la conoscenza diffusa degli alunni, le loro convinzioni pregresse su un certo argomento, i loro stessi pregiudizi, le opinioni, le elaborazioni discorsive, le argomentazioni e controargomentazioni sono il materiale stesso su cui e con cui si svolge la lezione. L’insegnante guida il ragionamento degli studenti per giungere ad una soluzione attraverso l’induzione.
In questo approccio l’aspetto educativo, relazionale, acquista molto più rilievo che nel precedente.
Come si vede, questo approccio comprende una particolare modalità di fare lezione che abbiamo definito «prova formativa immediata». Si tratta di questo: ogni unità didattica deve prevedere un feedback immediato, rivolto a tutti, e non ai due o tre fortunati o sciagurati come nel caso dell’interrogazione. La verifica sarà quindi breve, focalizzata sull’unità appena svolta e chiusa (vero/falso, scelta multipla, completamento, collegamento fra variabili, ecc.), perché deve essere corretta immediatamente e collettivamente. La verifica è «formativa» proprio perché non è finalizzata a dare un voto, a sanzionare un’eventuale carenza, ma è la restituzione immediata di quanto si è investito in quell’unità in termini di impegno cognitivo e anche relazionale.
(Fine prima parte)