Bello, gentile, elegante, poeta e prosatore in volgare e in latino, colto, di animo aperto e d’intelligenza raffinata, Francesco Petrarca non riusciva a dominare un’irrequietezza interiore che lo rendeva incapace di restare a lungo in un posto; si sentiva come inseguito da misteriosi richiami.
Un bel giorno volle realizzare un desiderio vagheggiato fin dall’infanzia: scalare la vetta del Ventoux (Ventoso, 1909 m), la più alta della regione avignonese.
Scrisse quindi una lettera a Dionigi di Borgo San Sepolcro, frate agostiniano, nella quale raccontò di questa scalata, assieme al fratello Gherardo e a due servi, il 26 aprile 1336. Una lettera che oggi offre l’opportunità di approfondire alcuni temi, tipici del Petrarca, e che sono nello stesso tempo elementi fondamentali dell’ascetica quaresimale.
Nel testo, l’allora giovane poeta racconta che la scalata del Ventoux era ardua, tanto che un vecchio pastore tentò di dissuaderli dall’impresa. «Ma mentre ci gridava queste cose, a noi — così sono i giovani, restii ad ogni consiglio — il desiderio cresceva per il divieto» (Le Familiari, IV, 1, Urbino, Argalia, 1974, 366).
La stanchezza e lo scoraggiamento si facevano presto sentire e Francesco cercava invano i sentieri pianeggianti, provocando le risa del fratello e il proprio avvilimento. Ma un pensiero lo stimolava a continuare: «La vita che noi chiamiamo beata è posta in alto, e stretta è la strada che vi conduce». Occorre «volere con ardore», respingere l’illusione che si possa raggiungere l’Alto agevolmente.
Per tutta la discesa il poeta restò dunque in silenzio, «riflettendo quanta fosse la stoltezza degli uomini i quali, trascurando la loro parte più nobile, si disperdono in mille strade e si perdono in vani spettacoli, cercando all’esterno quello che si potrebbe trovare all’interno>>.
A conclusione della lettera, Petrarca chiese all’amico, cui essa era indirizzata, di pregare per tutti i suoi «segreti pensieri, uno per uno, perché erranti e incerti da tanto tempo, finalmente si arrestino, e dopo essere stati trascinati inutilmente per ogni dove, si rivolgano all’unico bene, veramente certo e duraturo». In tal modo, la scalata del Ventoux si trasforma in un impegno di conversione. Questa deve realizzarsi ricorrendo a quattro mezzi che la lettera del Poeta indica, e molte sue opere illustrano: importanza di pause di solitudine a contatto con la natura, necessità della preghiera, attualità della penitenza, meditazione delle verità ultime.
Petrarca cerca la solitudine non per spirito misantropico né per disamore o disprezzo della convivenza umana, ma perché convinto che Dio lo si trova non nel «tumulto delle folle» ma nel silenzio.
Il bisogno di silenzio per ritrovare se stessi e Dio è un elemento essenziale della Quaresima, soprattutto ai nostri giorni. «Ciascuno di noi — ha scritto il card. C. M. Martini — è esteriormente aggredito da orde di parole, di suoni, di clamori, che assordano il nostro giorno e perfino la nostra notte; ciascuno è interiormente insidiato dal multiloquio mondano che con mille futilità ci distrae e ci disperde» («Paura e fascino del silenzio», in Il silenzio, Vicenza, La Locusta 1986, 119). Tale stordimento ha esiliato Dio ed estraniato l’uomo da se stesso, condannandolo nello stesso tempo alla dispersione e allo smarrimento. Un tempo, durante il periodo quaresimale, ai fedeli si raccomandava il digiuno e l’astinenza; oggi ci sono anche altre proficue forme di penitenza: astenersi, per esempio, da certe trasmissioni televisive, insulse e nocive, e dedicare un po’ di tempo alla preghiera, all’approfondimento della fede e alle opere di carità.
La fatica della scalata — che indebolisce la volontà e mette allo scoperto la propria debolezza — ricorda al Petrarca che il cristianesimo è una conquista, non una eredità. Noi vorremmo raggiungere la Vetta percorrendo «la strada più pianeggiante che passa per i bassi piaceri della terra» e dimenticando l’ammonimento dell’Apostolo: «Non gozzoviglie ed ebbrezze, non lascivia e impudicizie, non risse e gelosia, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo, e non seguite la carne nelle sue concupiscenze» (Rm 13, 13-14).
Anch’egli si era «disperso» su strade pericolose, condotto dalla voluttà «in uno splendido abisso» (te in splendidum impulit barathrum): splendido per la speciosità delle apparenze e le insidiose promesse. In gioventù il volto di Laura gli era apparso come la stessa bellezza della vita, e la gloria mondana gli si era presentata come fine della sua attività. Aveva temuto di soccombere al gioco delle apparenze: Si non cupis immortalia, si aeterna non respicis, totus es terrenus, actum est de rebus tuis (Se non desideri le cose immortali, se le realtà eterne non t’interessano, sei tutto terreno, per te è finita)». Terrorizzato da questa prospettiva, si era votato a una lotta interiore per liberarsi dalla schiavitù delle passioni che umiliano il corpo e lo spirito. L’opuscolo Secretum sive de secreto conflictu curarum mearum testimonia l’impegno e la durezza di tale lotta, da lui combattuta soprattutto su tre fronti.
Innanzitutto sul fronte della preghiera. Convinto che, senza l’aiuto di Cristo, si resta abbandonati alle nostre miserie, così a lui si rivolge: «Vieni […]. Io mi perdo se tu ritardi!».
Francesco Petrarca fu un uomo di preghiera: a mezzanotte si alzava per la recita delle ore canoniche notturne, frequentava con assiduità i sacramenti, si rivolgeva alla Santa Vergine con devozione filiale: in occasione del Giubileo del 1350 intraprese il suo quinto viaggio per Roma, viaggio «tanto più felice degli altri quanto è più nobile la cura dell’anima rispetto a quella del corpo e quanto più è augurabile la salvezza eterna rispetto alla gloria mortale» (Lettera a G. Boccaccio, in Le FamiliariXI, 1).
Nella Lettera apostolica Novo millennio ineunte Giovanni Paolo II ha raccomandato di dare alla preghiera «tutto il suo spazio», poiché «senza Cristo non possiamo far nulla» (Gv 15,5). La nostra salvezza e santificazione — scopo della vita — è legata alla preghiera, perché essa immette in noi la forza dello Spirito, illumina la mente, orienta la volontà, infonde nell’anima quel sentimento che Petrarca indica nel Secretum: Sentio inexpletum quoddam in praecordiis meis semper (Avverto sempre nel mio intimo una sensazione d’incompletezza). Si riferisce alla stanchezza della terra che non sazia, alla sete d’infinito, al richiamo della Bellezza sussistente.
In secondo luogo, Petrarca combatté le passioni con la penitenza o mortificazione, «particolarmente sotto la forma del digiuno, che praticò con un’assiduità e un rigore che stupiscono noi uomini moderni […]. Da anni soleva digiunare quattro volte la settimana, ed il venerdì solo a pane e acqua in memoria della passione di Cristo» (P. P. Gerosa, Umanesimo cristiano del Petrarca, Torino, Bottega d’Erasmo, 1966, 423). Alla penitenza corporale aggiunse anche quella spirituale, più difficile e necessaria. Quando nel 1342-43 si propose di riordinare la propria vita liberandola dalla schiavitù della libido et voluptas si chiese se non dovesse anche spegnere dentro di sé l’amore per Laura, e cancellarne anche il ricordo.
Tempo di penitenza è la Quaresima. La società odierna, tesa soprattutto alla conquista dei beni materiali e divorata dalla sete del godimento, rifiuta la penitenza, ne nega il valore, propugna il benessere e l’affermazione della persona come scopo della vita. In tale atmosfera pagana capita che anche alcuni cristiani si chiedano se la penitenza e la mortificazione, oggi, abbiano ancora un senso o se non si tratti di pratiche religiose desuete. In merito l’avventura di Petrarca è illuminante: in tanto le rinunce agli agi, le veglie, le scelte dolorose hanno valore, in quanto ci permettono di scalare la Montagna.
Riecheggiando sant’Agostino, Petrarca ricorda che il male non è nelle cose ma nella nostra coscienza e volontà pervertite che ci spingono al disordine e ci allontanano da Dio. Nell’esortazione Paenitemini (17 febbraio 1966) Paolo VI scriveva che l’«esercizio della mortificazione del corpo — ben lontano da ogni forma di stoicismo — non implica una condanna della carne, che il Figlio di Dio si è degnato di assumere». Il corpo dell’uomo è destinato alla risurrezione: se lo si mortifica è perché in esso, un giorno, si manifesti in maniera più splendida la vita di Cristo.
Il terzo fronte di lotta sul quale Petrarca ha combattuto per vincere le «turpitudini terrene» è la meditazione delle realtà ultime, soprattutto della morte. Il pensiero della morte è un tema ricorrente nella sua opera. Nelle prime pagine del Secretum rivela egli stesso il motivo di tale insistenza: «Per insegnarti a sfuggire le strettezze della vita mortale e a mirare più in alto, vorrei farti toccare con mano che non c’è mezzo migliore che questo, cioè meditare la morte e l’umana miseria, poi accendersi di vivissimo desiderio e ardente studio di sorgere dal nostro basso stato; dopo di che è facile la salita per giungere là dove il cuore sospira». Meditare la morte, dunque, per rinvigorire lo spirito e rendersi capaci di raggiungere Dio.
La meditazione della morte genera in Petrarca un sentimento che costituisce uno dei poli della sua ascetica: la coscienza della caducità di tutte le cose. Che cos’è la vita? «La vita è un sogno, un fumo, un nulla» (Senili, VII, 1). E la fama? «Una chiacchiera divulgata intorno a qualcuno, e spersa per molte bocche […]. È un fiato e soffio volubile» (Secretum, secondo dialogo). E la bellezza del corpo? «Vento e ombra», l’ombra di un fiore che un po’ di vento getta per terra (De remediis, cap. II). E che cosa pensare della sua incoronazione in Campidoglio? «Vanità delle vanità; tutto è vanità» (Familiari, IV, 6).
Meditare la morte. Che valore ha questo invito, oggi che il progresso scientifico e l’efficientismo tendono a ridurre la morte a un fatto tecnico, ospedaliero, da tenere lontano? All’interrogativo Petrarca dà due precise risposte. Dobbiamo avere il coraggio e l’intelligenza di guardare in faccia la morte: non nasconderla, non banalizzarla, non esorcizzarla con futili espedienti. In secondo luogo, occorre pensare alla morte, ma in senso positivo, con speranza, restituendole il suo significato di compimento e d’incontro con l’Amore trascendente.
La Quaresima, vissuta secondo i suggerimenti di Petrarca — con pause di silenzio e di preghiera, con volontà di conversione, dediti alla meditazione delle realtà ultime — ci conduce alla speranza viva della nostra eterna risurrezione.