Statodonna.it, 17 dicembre 2023 – Rubare agli altri quando la precisa intenzione è arrecare danno all’altrui persona. Ma quali sono poi le conseguenze… Ci hai mai pensato?
Dante, sì.
Per lui i ladri sono peccatori.
“Tra questa cruda e tristissima copia corrëan genti nude e spaventate,
sanza sperar pertugio o elitropia:
con serpi le man dietro avean legate; quelle ficcavan per le ren la coda
e ’l capo, ed eran dinanzi aggroppate”.
È la condizione dopo la morte dei ladri, di chi deruba il prossimo, così come viene immaginata, definita e descritta da Dante nel canto XXIV dell’Inferno della Divina Commedia, che si svolge nella settima bolgia dell’ottavo cerchio.
Siamo nel mattino del 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o, secondo altri commentatori, del 26 marzo 1300.
L’esordio qui è affidato ad un’ampia similitudine, secondo l’uso retorico medievale: un quadro campestre la cui rappresentazione da parte del Poeta non è fine a se stessa.
La ripresa di fiducia del villanello allo sciogliersi della brina scambiata in un primo momento per neve, cosa che gli avrebbe impedito di condurre il gregge al pascolo, è assimilata infatti al mutare dello stato d’animo di Dante, prima turbato nel vedere Virgilio accusare il colpo delle parole beffarde di Catalano, rivelatrici dell’inganno di Malacoda, poi riconfortato dallo stesso maestro, rientrato prontamente nel ruolo di guida esperta e sicura che gli compete.
“In quella parte del giovanetto anno
che ’l sole i crin sotto l’Aquario tempra
e già le notti al mezzo dì sen vanno, quando la brina in su la terra assempra l’imagine di sua sorella bianca,
ma poco dura a la sua penna tempra, lo villanello a cui la roba manca, si leva, e guarda, e vede la campagna
biancheggiar tutta; ond’ei si batte l’anca,
ritorna in casa, e qua e là si lagna,
come ’l tapin che non sa che si faccia;
poi riede, e la speranza ringavagna, veggendo ’l mondo aver cangiata faccia in poco d’ora, e prende suo vincastro e fuor le pecorelle a pascer caccia. Così mi fece sbigottir lo mastro quand’io li vidi sì turbar la fronte, e così tosto al mal giunse lo ’mpiastro; ché, come noi venimmo al guasto ponte, lo duca a me si volse con quel piglio dolce ch’io vidi prima a piè del monte”.
Virgilio, in tale tratto, osserva con attenzione la rovina, poi apre le braccia e sorregge Dante aiutandolo nella salita, spingendolo cioè verso uno spuntone di roccia cui possa aggrapparsi e dandogli preziose indicazioni su come proseguire.
La via è impervia, tale che i due possono a malapena compiere la scalata, aiutati dal fatto che le Malebolge sono un piano inclinato verso il pozzo centrale e quindi la sponda interna di ogni Bolgia è meno ripida e più corta di quella esterna. Con enormi sforzi i due poeti raggiungono la sommità dell’argine e Dante è senza respiro, al punto che si siede appena arrivato. A questo punto, Virgilio rimprovera il suo allievo, dandogli un grande insegnamento, uno sprone che potrebbe ben valere ancora oggi lanciare ai giovani: non si raggiunge la fama stando seduto o sotto le coperte, e senza fama la vita di un uomo è destinata a passare come fumo nell’aria e schiuma nell’acqua.
Virgilio esorta, dunque, Dante ad alzarsi e a vincere la sua stanchezza, dal momento che essi devono compiere una ben più ardua salita.
Le parole del maestro hanno l’effetto di scuotere Dante, che si alza e si dice pronto a proseguire il cammino.
«Omai convien che tu così ti spoltre», disse ’l maestro; «ché, seggendo in piuma, in fama non si vien, né sotto coltre; sanza la qual chi sua vita consuma, cotal vestigio in terra di sé lascia, qual fummo in aere e in acqua la schiuma.
E però leva sù; vinci l’ambascia
con l’animo che vince ogne battaglia, se col suo grave corpo non s’accascia. Più lunga scala convien che si saglia; non basta da costoro esser partito.
Se tu mi ’ntendi, or fa sì che ti vaglia».
Più avanti, guardando nel fondo della Bolgia, Dante non vede nulla a causa della profonda oscurità, quindi prega Virgilio di raggiungere l’argine che separa la Bolgia dove sono da quella successiva e il maestro volentieri acconsente.
I due percorrono tutto il ponte sino all’argine tra la VII e l’VIII Bolgia e da qui Dante può vedere che la fossa è piena di orribili serpenti.
Sono questi i ladri.
Intorno a loro, si dipana la orrenda fine che essi fanno dopo la morte, a causa del loro indugiare e insistere in una colpa così ignominiosa come il furto ai danni del prossimo quando erano in vita.
E lo spettacolo è così spaventoso da far ancora paura a Dante nel ricordarlo.
“[…] e vidivi entro terribile stipa di serpenti, e di sì diversa mena che la memoria il sangue ancor mi scipa”.
Si tratta di un ammasso di serpenti che corrono dannati, nudi e terrorizzati, con le mani legate dietro la schiena da serpi che insinuano il capo e la coda attorno ai fianchi, annodandosi davanti al ventre.
Condizione temibile quella dei ladri, insomma, secondo il Sommo Poeta, perché così vorrebbe Iddio.
“E qual è quel che cade, e non sa como,
per forza di demon ch’a terra il tira,
o d’altra oppilazion che lega l’omo, quando si leva, che ’ntorno si mira
tutto smarrito de la grande angoscia ch’elli ha sofferta, e guardando sospira:
tal era ’l peccator levato poscia.
Oh potenza di Dio, quant’è severa,
che cotai colpi per vendetta croscia!”
Vale a dire:
“E come colui (l’indemoniato o l’epilettico) che stramazza al suolo senza rendersene conto (e non sa come), a causa di un demonio che lo trascina a terra, o di un’al- tra ostruzione che gli blocca le funzioni fisiologiche,
e quando si rialza (si leva) si guarda (si mira) intorno ancora frastornato (tutto smarrito) per la grave crisi (de la grande ango- scia) che ha subito (sofferta), e guardando intorno sospira; tal era ’l peccator levato poscia.
Oh potenza di Dio, quant’è severa, che cotai colpi per vendetta croscia!”
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