Il dolore di una famiglia: sono teneri mentre li guardo con cuore straziato
Le prende la mano ogni tre minuti. La bacia e se la passa sul viso chiudendo gli occhi. La tira per un braccio e quando lei si abbassa o si gira, a seconda che sia in piedi o seduta, la guarda intenerita e lei le chiede “ Vieni con me dopo?”
“Sí” le risponde e lei la guarda adorante e contenta. Ogni tanto parla da sola, rispondendo tra sè al sacerdote che dall’altare officia il rito perché è passato un anno da quando suo figlio maschio è morto.
Di una malattia che ad oggi non perdona. La diagnosi arrivata subito, le cure sperimentali cercate online da tutta la famiglia che di giorno faceva finta di star bene e di notte cercava notizie e conforto ciascuno piangendo da solo, davanti ai propri dispositivi che illuminavano impietosi visi disperati.
Ognuno visitava lo stesso sito e appuntava nomi di farmaci innovativi, di protocolli autorizzati e finanziati, di medici che il più delle volte erano dovuti emigrare per riuscire a fare i ricercatori e nello stesso tempo non morire di fame.
Però poi ad un certo punto sono tornati in Patria perché tanto lo sappiamo, ad un certo punto arriva di soppiatto la nostalgia, anche per chi rinnega bambino e acqua sporca. E meno male che tornano, e magari riescono a continuare nella loro ricerca.
Era stato così anche per loro, che hanno incrociato la strada di questo medico appena tornato, e l’ha inserito subito Andrea nel protocollo. Perché era giovane e perché gli serviva per la casistica, diciamo la verità. Glielo aveva detto quasi per caso, una mattina che erano soli e sembrava tutto molto intimo. Confidenziale.
Gli era scappata la frase al dottore il quale, preso dall’entusiasmo, si era forse per un attimo dimenticato che dopo “paziente” c’è un nome, un cognome, una famiglia a di origine è una nuova, un partner, dei figli, magari un cane o un gatto.
C’è qualcuno che su quella persona conta, che gli vuole bene, o che lo ha fatto molto arrabbiare e deve chiarire ancora da quella volta. C’è una persona che canta le canzoni non necessariamente sotto la doccia, magari mentre corre, perché fa sport o cammina per le strade vuote o sotto la pioggia solo perché gli piace.
C’è una persona che lavora e magari ha delle responsabilità o forse aspetta una promozione o forse non vede l’ora di andare in pensione perché avrebbe sempre voluto viaggiare e non ne ha mai avuto il tempo, e adesso invece, si è già iscritto a quei bei grupponi Facebook dove condividi gli itinerari e le fotografie e tutti a dire bravi e a farsi i complimenti.
C’è una persona che ha degli hobbies e li coltiva sottraendo tempo alla famiglia che però lo perdona perché gli vuole bene.
Gli aveva detto tutte queste cose al dottore Andrea, ma lo aveva fatto sorridendo e con quel modo cameratesco che gli derivava da tanti anni di militanza nel volontariato e non gli piaceva giudicare, ma riusciva lo stesso ad esprimere pensieri che arrivavano dove dovevano arrivare. E si era sentito piccolo piccolo il dottore e gli aveva chiesto scusa.
E poi erano diventati amici, e quando era apparso chiaro che le terapie avevano smesso di funzionare avevano pianto insieme, che non si fa, ma si erano detti che ormai nei canoni c’erano stati poco e quindi potevano abbracciarsi.
E ora è passato un anno, e siamo qui, davanti a questo altare e a questo prete che nemmeno lo conosceva Andrea, e fa una omelia di massima. Di quelle con lo stampino che ti vengono i nervi perché lo capisci che non ha fatto nemmeno lo sforzo di informarsi, e forse l’ha letta su qualche manuale per gli addetti ai lavori.
E forse anche la mamma di Andrea ne ha percepito la distanza e la retorica e nemmeno lo ascolta. Guarda la figlia, quella che le è rimasta, e ogni tanto se lo dimentica quello che è successo, o forse fa finta per salvarsi la vita e anche per salvarla agli altri.
A suo marito prima di tutto che si occupa di lei perché la figlia e i nipoti lavorano o studiano e poi hanno la loro vita di ragazzi che Andrea prima di morire gli ha fatto promettere che l’avrebbero continuata a vivere, anche in sua memoria.
Ha resistito alla tentazione di affidare le figlie all’unico maschio, perché non ha voluto dargli questo ulteriore carico oltre al dolore che si porterà dietro per sempre, orfano troppo presto, quando ancora vuoi essere figlio e fare tutte quelle cose che non siete mai riusciti perché non c’è mai tempo o perché c’è sempre qualcosa da fare.
E va a trovare la nonna la sera. Lei gli appoggia le mani sulle spalle e lo tira giù. Appoggia la guancia alla sua e lo annusa, come a cercare di riconoscerlo in un altro modo che non abbia la necessità di mettere insieme pezzi che lei non riesce ogni volta a far combaciare, ma lo sa chi è lui, non ha bisogno di chiedere. Lo sa sempre, tutte le sere.
Che poi in realtà la malattia avanza lentamente, e lei è come se fosse bloccata, ferma in un mondo suo fatto di abbracci e carezze, da prendere e da dare.
È una malattia che con lei è clemente, rendendola petulante ma dolce, e nessuno ha il coraggio di risponderle male, nemmeno quando ripete di nuovo la stessa cosa.
E nemmeno quando parla da sola sovrastando la voce del parroco che parla di qualcuno che non c’è più. E il marito le dice “zitta” ma non ne è convinto neanche lui e prova lo stesso fastidio che aveva provato Andrea con il suo dottore perché questo “qualcuno” era suo figlio, e gli sembrano inutili e offensive le cose che sente e non vede l’ora anche lui di tornare a casa con quella sua moglie a volte bambina, che tiene per una mano, mentre con l’altra le sistema il golfino sulle spalle. “Copriti, che c’è aria”. Sono teneri e tristi, e ho il cuore straziato mentre li guardo.
Per Andrea, morto così giovane. Per i suoi figli e per la moglie che ancora forse non se ne rendono conto.Per la mamma, che ha trovato rifugio nella malattia. E per il padre, che mi pare carico di un dolore consapevole e troppo grande ma pieno di dignità, una specie di Priamo che aspetta solo di andarsi a riprendere il suo ragazzo.