Si era innamorata di quella bambina senza colpa per l’egoismo del padre

Eravamo sull’aia. Gli uomini avevano portato fuori i tavoli di legno, quelli grandi che di solito stavano nel magazzino, e intorno ai quali ci si sta in tanti e si tiravano fuori nelle occasioni speciali. Quella sera, dunque e anche alle feste religiose, come il primo di maggio, quando si festeggiava il mese di Maria.

Davanti a quella chiesetta piccola, anzi minuscola, che non ha neanche il posto per il confessionale e infatti il don si andava a sedere di fronte, sotto al patio, in un angolino, dove qualcuno posizionava delle piante alte, per nascondere peccati e peccatori.

Le donne apparecchiavano quei tavoli con delle tovaglie di fiandra bianca, cucite apposta, su misura. E con i piatti veri, non di carta anche se si era in tanti ed in campagna, tutti bianchi anche loro, e con il bordo a rilievo, che erano stati della nonna della padrona di casa, e venivano conservati in una credenza di ciliegio, insieme ai bicchieri, e alle posate di peltro e ai bicchierini di vetro colorato per l’amaro.

E venivano tolti da lì solo in certe occasioni. E per fortuna prima le famiglie erano numerose, e ogni domenica arrivavano tutti, anche chi era andato a vivere nei borghi lì intorno, o addirittura giù al mare. E venivano per mangiare quindi di piatti ce n’erano in abbondanza, e per stare insieme fino al tramonto, almeno.

Che poi, Italia, si chiamava così, sorrideva tra sé e diceva che in fondo anche lei e Adriano avevano una famiglia numerosa. Magari in un modo originale. Perché insieme avevano avuto Lorenzo, e infatti quella sera festeggiavamo proprio il suo onomastico e quelle stelle cadenti che non le vedeva mai nessuno ma tutti facevamo finta di averle viste.

Poi lui aveva una figlia nata da una precedente relazione e un’altra nata da una relazione successiva.

Successiva, ora…contemporanea, meglio. Coeva, ecco. Le piaceva chiamarla così, le sembrava meno grave, come cosa. Una relazione che lui aveva avuto con una sua dipendente, quando Lorenzo era piccolo, e lei una mamma inesperta e un po’ stanca. E Adriano si era sentito solo, “abbandonato” le avrebbe poi confessato, e si era fatto tenere compagnia. E lei, onestamente, quasi lo aveva capito. Perché la situazione era pesante con certe giornate che passavano tra poppate, pannolini, ruttini, pesate prima e dopo, ninnenanne, lallazioni da monitorare. E passetti da iniziare a fare. Tutto questo per giorni e giorni senza parlare mai con un adulto. Tranne la signora che l’aiutava in casa, che però era di poche ma significative parole “Passerà Italia, passerà.”

Fine della comprensione, zero compassione. Che poi la compassione era uno dei suoi cavalli di battaglia, ci aveva scritto anche la tesi. E anche dei suoi studi, dei suoi libri, erano rimasti solo i ricordi e la passione per le parole un po’ complicate, insolite. Come “coeva”. Che le ricordavano a cosa avesse rinunciato e cioè ad insegnare, che era sempre stato il suo sogno, ma non era un ricordo doloroso. Perché Lorenzo era tutto. Anzi, loro tre erano tutto.

Quel giorno aveva capito subito che le doveva dire una cosa brutta. Era tornato a casa prima dall’azienda e le aveva detto di prepararsi per salire in collina, nella casa dell’aia e dove avrebbero voluto trasferirsi, nel tempo. Un tempo lontano, però, perché lui adorava il suo lavoro e nessuno lavorava quanto e come lui, là dentro, sporcandosi le mani e non solo impartendo ordini.

Un’azienda che si era costruito dal nulla, tutti contro, ma lui ci credeva moltissimo e aveva investito ogni centesimo di tempo e denaro in quel progetto.  Che poi era diventato una realtà e anche bella. Il suo riscatto, davanti a chi lo aveva deriso quando non ostacolato. E lei lo aveva sempre sostenuto e i soldi delle ripetizioni e dello stipendio che le davano le suore serviva a mangiare quando lui a casa non portava niente se non l’entusiasmo e la stanchezza.

“Italia, avremo una figlia”. Le aveva detto. “E di quanti mesi sono?”. Gli aveva risposto. “Sette”. “Me lo dovevi dire prima, almeno avrei scelto con cura il corredino. Ora mi toccherà fare di corsa e magari accontentarmi di quello che troverò”. Poi, basta.

Gli parlò di nuovo quando vide per la prima volta la bambina. Che aveva sei mesi e una faccina tonda tonda, uguale a quella di Adriano, che in quei mesi l’aveva solo potuta guardata piangere davanti a lui e a Lorenzo, che era piccolo e non capiva. Piangeva di rabbia contro di lui perché non se lo meritava, e contro se stessa perché sapeva che non lo avrebbe mai lasciato.

Piangeva di dolore, per lei e per Lorenzo, che erano stati traditi. Ma non abbandonati, perché Adriano li amava teneramente ed era disperato, e lei un po’ lo ammirava, perché avrebbe potuto tirarsi indietro con quell’altra, le avrebbe potuto dire che se avesse confessato avrebbe distrutto il suo matrimonio e invece aveva riconosciuto la bambina e si era assunto le responsabilità di quello che era stato.

E piangeva perché anche lei avrebbe voluto una bambina e invece la gravidanza di Lorenzo era stata complicata, i medici avevano sconsigliato di avere altri figli e loro li avevano ascoltati.

Ma ora davanti a quella bambina si era sentita sola, Italia, e colpevole nei confronti di Lorenzo, che aveva accolto invece la sorella con la semplicità del suo cuore bambino e le chiedeva quando sarebbe andata a conoscerla.

Fino a quando, quella domenica, Adriano si era fatto forza e gliela aveva portata a casa. E si era innamorata Italia. Ricambiata. Perché Elisa non aveva colpa dell’egoismo di Adriano.

E così i fratelli erano cresciuti tutti e due insieme, anzi tutti e tre, perché c’era anche Rosa, nata quando Adriano aveva venti anni, poco prima che si conoscessero. Una bella famiglia e lei, comunque ne era fiera e amava i ragazzi come se fossero tutti suoi. Loro.

E quella sera, alla festa per l’onomastico di Lorenzo c’erano tutti. Fratelli, cugini, parenti, amici. Eravamo lì, seduti a quei tavoli, a mangiare le tagliatelle al ragù e poi gli uomini a fare la brace per la grigliata mentre noi signore, svelte, avevamo formato una efficientissima catena umana fatta di mani, chiacchiere e risate e avevamo già lavato ed asciugato i piatti fondi con certi strofinacci, di fiandra anche loro, che asciugavano benissimo e senza lasciare pelucchi. E Italia li aveva anche sistemati nella credenza, che profumava di limone e chiodi di garofano, per tenere lontani gli insetti.

E poi eravamo rimasti fino a notte, a guardare il cielo e a bere dei liquori improponibili, esperimenti mal riusciti che sapevano solo di alcool, alla fine. Nocino, limoncino, mandarino, liquirizino…nomi gentili e inoffensivi per bicchierini colorati che al terzo assaggio ero stordita, e vedevo elfi dietro ai cespugli. Il peggio arrivava quando li volevo prendere. Ridevamo da morire e il giorno dopo mi capitava di riflettere che forse oggi ci facciamo paladini di quello che prima accettavamo senza dire che l’accettavamo.

Erano tempi così, non era infrequente. Quello che distingue loro due è, forse, l’amore che li lega anche agli altri. Che è forte e sincero.

Divertente e non pesante. Che non percepivi neanche il tradimento consumato e, se lo percepivi, non ti veniva in mente di giudicare nessuno, ma anzi ti sembrava di poter solo imparare. L’amore gratuito.

Simonetta Molinaro, 3 settembre 2023

 

 

Simonetta Molinaro

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