Sabato 29 luglio 2023, in prima serata su Rai 5, è stata trasmessa la tragedia di Euripide, Le Baccanti, rappresentata nel 2021 al Teatro greco di Siracusa a cura del I.N.D.A. (Istituto Nazionale del Dramma Antico).
È un appuntamento che si rinnova ogni anno a vantaggio degli appassionati e delle scolaresche che da tutta Italia si misurano con le rappresentazioni delle tragedie greche studiate al penultimo anno del liceo classico.
Ma non è necessario essere specialisti per gustare una rappresentazione antica: occorre solo una buona informazione di base e lasciare che lo spettacolo affascini la mente e il cuore degli spettatori, che vivono sugli spalti dell’antico teatro in pietra le esperienze da cui è nata ogni forma di teatro che abbiamo in Occidente.
che lo seguono nei suoi spostamenti fra varie regioni della terra allora conosciuta (con il drammaturgo Euripide siamo nel V sec. a.C.), dove afferma la sua potenza di divinità e stabilisce i culti che gli sono dovuti.
Ma Euripide affronta in questa tragedia, ambientata nella città di Tebe, un punto cruciale legato a questo dio: la sua potenza non è da tutti riconosciuta o non subito, almeno. Ed è quello che avviene appunto in questa tragedia.
Siamo a Tebe, dove regna il giovane sovrano Penteo, figlio di Agave, cugino stesso del dio Dioniso, figlio di Zeus e della sorella di Agave di nome Semele.
Intanto la famiglia di Semele non ne sa più nulla e soprattutto non ha mai creduto che la giovane sia stata veramente amata da un dio, pensando invece ad una enorme bugia per giustificare un amore clandestino. Dioniso, ormai adulto, giunge a Tebe per fare giustizia di tutte le incomprensioni di questa famiglia particolare e per affermare la sua potenza divina; al seguito ci sono le donne che lo seguono ovunque coltivando i suoi rituali.
Penteo, il giovane sovrano cui spetta il compito di reggere con ragionevolezza e saggezza la città, si scontra subito con questo straniero che non rivela immediatamente la sua identità di dio e di cugino, ma che mette alla prova la resistenza di tutti. Le donne della famiglia, la madre di Penteo e le zie Ino ed Autonoe, insieme ad altre donne tebane, hanno abbandonato le loro dimore e le solite occupazioni femminili (tessere e occuparsi della casa, in cui vivono tutta la giornata, e da cui escono solo in occasioni speciali) per andare a celebrare sui monti vicini i rituali del dio, fatti di vita in comune con gli animali e con la natura – le donne appena divenute madri allattano in cuccioli degli animali in una perfetta simbiosi con la natura.
Naturalmente il sovrano Penteo si oppone a tutto questo: è impossibile per lui, custode dell’ordine (che oggi chiamiamo patriarcale) della città, consentire alle donne di sfuggire alla loro vita sempre controllata. Egli dubita anche della loro moralità, visto che vivono non più sotto la guida dei maschi di casa e che miracolosamente la natura produce spontaneamente latte, miele, e il vino, farmaco di ogni dolore. Penteo è turbato anche dal fatto che suo nonno, il vecchio re Cadmo, e l’indovino Tiresia abbiano anch’essi ceduto a questo nuovo dio.
Le accuse reciproche sono di grande durezza: ognuno dice dell’altro che non conosce la vera sapienza, la quale per Cadmo è fatta di una vita semplice, naturale e vissuta nel rispetto degli dei, con i quali non è mai lecito combattere, pena la morte; per Penteo la sapienza è invece la ragione, sono le leggi della città che egli deve custodire e dunque non tollera il caos faccia irruzione nel suo mondo per cui, accusando i due vecchi di essere diventati folli, invia i suoi uomini a catturare le donne ribelli e a portargli davanti questo straniero impudente.
Lo straniero arriva davanti a lui, ma non la madre e le altre tebane, che, di fronte al pericolo di essere catturate, tirano fuori una forza inaspettata e sovrumana, con cui minacciano i soldati e soprattutto uccidono bestie enormi come i tori, che squartano con incredibile facilità.
Nel duello verbale fra Penteo e lo Straniero, il re si lascia ingannare e convincere a vestirsi da donna per andare a vedere di persona i riti dionisiaci. In realtà, quando giunge sul posto e nascosto in cima ad un albero per poterle spiare, la madre, le zie e le altre donne lo afferrano, lo smembrano, si palleggiano le parti del corpo e la madre rientra a Tebe per annunciare al vecchio padre la cattura di un leone di cui porta la testa. Quando si rende conto, aiutata a rientrare in sé dalle domande delicatissime del padre, del delitto compiuto, capisce nel suo immenso dolore che la sua vita è finita. Per entrambi si prefigura un destino terribile anche in luoghi lontani da casa, in attesa di una morte che forse non arrecherà nessuna pace.
Freud in una conferenza una volta affermò che lui e gli uomini di scienza come lui non avevano detto nulla che i Poeti non avessero già scritto, e questo vale soprattutto per il teatro greco tragico, una forma di terapia psicoanalitica collettiva, durante la quale, attraverso la pietà e la paura suscitate negli animi, gli spettatori erano ammoniti a trovare un equilibrio nella loro vita reale. E qui si allude chiaramente all’equilibrio necessario tra la vita troppo razionale e quella troppo abbandonata agli istinti e alla natura. Apollineo e Dionisiaco sono i nomi di questi due modi di conciliare la vita, secondo la grande intuizione semantica del filosofo Nietzsche.
Si parla già allora, 2.500 anni fa, della violenza e delle zone oscure dell’animo umano, in un Penteo che schernisce i comportamenti diversi dai suoi, che irride alle donne considerandole chiaramente esseri inferiori e che disprezza ma che si avvia alla morte proprio vestito da donna, quasi compiaciuto nel suo intimo di assomigliare alla madre.
Qui si parla soprattutto del problema della vera identità sia di chi vive in quella città che ora conosce la vendetta del dio, sia di chi si presenta come straniero ma che in realtà è membro di quella comunità. L’inganno delle apparenze … La prudenza verso ciò che non si conosce e che si palesa come una realtà numinosa, percorsa da qualcosa di sovrumano …
L’ammonimento a non gareggiare con gli dei… La paura di dire apertamente quello che si pensa al re potente e arrogante, quando le guardie temono la punizione del re per messaggi che non dovessero piacergli. Infinite sono le ragioni tutte valide oggi per un testo teatrale di grande potenza e bellezza.
E la rappresentazione trasmessa recentemente in tv ha reso alla perfezione la grandezza del testo antico. Il regista catalano Carlus Padrissa ha diretto in modo sicuro e magistrale ottime maestranze che hanno reso scenograficamente i punti chiave della tragedia, con un dio trionfante finale, sollevato da terra e con le sembianze non più umane.
Gli attori sono stati semplicemente superbi, con Lucia Lavia, figlia di Gabriele Lavia e Monica Guerritore, mostri sacri del nostro teatro, che da donna interpreta il ruolo del Dio/Straniero, giocando sull’ambiguità già del testo antico, dove il dio era presentato come diverso, effeminato e con i boccoli biondi, il contrario dei guerrieri ateniesi e degli opliti spartani e dell’immagine stessa dell’uomo greco.
Bravissimi gli interpreti dei personaggi di Penteo e di Cadmo e tutti gli altri, ma soprattutto Linda Gennari, che con il suo grido muto di madre che comprende l’orrore di cui si è macchiata uccidendo il figlio, rivela ogni sfumatura possibile di sentimenti ed emozioni, dalla serenità, alla follia, alla resipiscenza finale, alla rassegnazione per la distruzione di una vita immaginata immutabilmente felice.
Spettacolo sublime, e anche noi per una sera come dice Agave “abbiamo capito”, ascoltando con la mente e con il cuore e con il dolore e la pietà le loro parole. Potenza inesauribile dei classici.
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Chiara ed esaustiva come sempre,brava mia cara amica 💓💓