Le donne e la forza di ri-cominciare la propria vita

La guardavamo arrivare, ogni giorno nello stesso modo. Lei con i tre bambini: tredici, dieci, sette anni. Stessa distanza di anni, stessa fisionomia delicata, stessa delicatezza di modi, una leggiadrìa che difficilmente si apprezza tra preadolescenti e adolescenti.

Lei con i capelli lisci perfetti anche appena uscita dall’acqua, che prendevano da soli la piega che a me solo con la piastra a 170 gradi; lei con i suoi caftani di seta abbinati a costumi che richiamavano i colori e i disegni della Costiera Amalfitana, ma non i limoni e i coralli e quei pesci improbabili che neanche nella Sirenetta di Disney. Quei caftani che non svolazzano dalle botteghe di Positano nella strada che scende al mare.

I caftani suoi erano quelli della collezione privata, quella custodita dentro guardaroba di legno massello la cui serratura è chiusa e la chiave ce l’ha la titolare che la tira fuori per le clienti speciali, oppure quelli che vengono cuciti su misura con stoffe meravigliose che scivolano addosso garbate senza scricchiolare mai.

Quelli da cui sbucano shorts con le iniziali ricamate a mano e che porti con sandali di cuoio rasoterra, tempestati di pietre preziose, cuciti artigianalmente e assemblati senza colle in certe piccole botteghe tramandate di padre in figlio con la stessa maestria e che, anche se richiamano quello stile, sono sparsi in piccoli posti anche lontani, magari in Toscana, ad esempio.

Ma lei invece li aveva comprati sulla Costiera, che conosce dal lato del mare quando sei a bordo di una discreta barca e non sulle spiagge che, per quanto belle e lussuose, sono piene di persone che senza essere lanzichenecchi sono comunque rumorose e fastidiose.

E mangiano con le mani che neanche i suoi figli lo facevano, neanche le patatine che i bambini della spiaggia di Archimede condividevano il pomeriggio con allegria, complici un paio di nonne ed eludendo i controlli salutari di noi mamme, io e Caterina in testa, ferventi sostenitrici della dieta mediterranea che a pranzo inseguivamo i nostri figli con contenitori ermetici pieni di legumi e verdurine abbrustolite nel forno alle sette del mattino, prima di scendere in spiaggia. Poi una quota parte di carboidrati e un po’ di frutta che ci sono le vitamine.

Lei da mangiare non portava niente che non fosse confezionato. Crackers, merendine, snack. Tutto nella borsa da mare anche quella evidentemente artigianale, con il monogramma che nemmeno Louis Vuitton, buttato a casaccio che poi alla fine erano un po’ spiaccicati e sciolti perché figuriamoci se lì dentro ci fosse il posto per un siberino infilato in una borsetta frigo.

Ma ne’ lei ne’ i bambini sembravano turbati da questo. Sembravano senza materia. Non camminavano, sfioravano la sabbia e anche in acqua, solo bracciate morbide e silenziose. Tutti e tre guardavano la mamma come in attesa di qualcosa che non arrivava mai, però. Ciascuno sembrava essere custode degli altri due e tutti e tre di lei, che non si alzava mai da quel lettino, fino a sera.

Quando, senza essere richiamati nemmeno una volta che noialtre ci guardavamo sentendoci a disagio per quei nostri figli che uscivano dall’acqua solo quando le manine raccontavano di una disidratazione incipiente e le nostre voci si erano abbassate a furia di chiamarli, arrivavano sotto l’ombrellone e senza fare storie si rivestivano da soli e in silenzio andavano via. Con i capelli biondi che andavano a posto da soli e il telo da mare a nido d’ape, che mio nonno ce lo aveva uguale. Erano un mistero.

Ma l’estate, quegli anni, era lunga. Caterina insegnava e rientrava il primo settembre a scuola. E Ludovica (e come si doveva chiamare?) aveva bisogno di parlare. Così, mentre io lavoravo, loro si raccontavano un po’. O meglio Caterina ascoltava le cose un po’ smozzicate che la sua nuova amica diceva.

La vedovanza l’aveva colta di sorpresa. E anche la solitudine. Perché fino a quando era stato vivo Paolo, era tutto un turbinìo. Di amici, di viaggi, di soldi. Forse anche un po’ eccessivo, tanto che alla fine risultarono meno di quello che lei pensava. I soldi, ma anche gli amici.

E così iniziò a pensare che forse sarebbe stato meglio lavorare. Che quando lui le aveva proposto di rimanere a casa lei avrebbe dovuto dire no.

Che quando lui le diceva “non ce la faresti a gestire tutto” gli doveva dimostrare il contrario. Che quando lui le dava i soldi per comprarsi una borsa, le dovevano bruciare in mano come se fossero incandescenti.

Che quando le parlava ammirato delle sue colleghe, doveva cogliere la discrepanza. Che quando le diceva “ti devo proteggere” significava “ti voglio controllare”. Aveva capito tutto dopo.

E ora, a quasi un anno di distanza, vagava senza sapere che fare. Consapevole che il conto in banca piano piano si sarebbe assottigliato. Capimmo che i bambini la controllavano perché avevano paura che cedesse, e quello che aspettavano era tipo un segnale per intervenire.

Che si adattavano a quella vita come cristallizzata, sospesa in un tempo che sembrava non avere tempo. Senza obiettivi, senza impegni, senza doveri. Un tempo misurato dal dolore, che diminuiva in proporzione inversa alla rabbia che provava per se stessa prima di tutto e che non sapeva come esprimere. “Se” la poteva esprimere senza il permesso di qualcuno, se non il suo, solo che non era abituata, non sapeva fare.

E parlavamo con Archimede sotto al gazebo, seduti tutti e tre rivolti verso il mare,

sgranocchiando pesce fritto attenti a non farci vedere dai bambini, vittime innocenti della dieta mediterranea, e poi quelle olive scure condite con alloro e peperoncino e il pane di grano duro ancora caldo.

Il vino quello solito, bianco e frizzante, leggero e fresco che anche nella tristezza ci rallegrava e ridevamo contenti solo per il fatto di essere lì.

Decidemmo di invitarla una domenica pomeriggio, al tramonto. E venne, elegante come se fossimo al bar di un cinque stelle superior tipo quelli di Bruno Barbieri e non sotto un chiosco di palme.

Capì. E in silenzio ascoltò le frasi che volevano essere incoraggianti senza diventare motivazionali, che i guru ancora non li conoscevamo. Archimede, con la sua voce bassa, le raccontava come per caso che quando finalmente aveva capito chi davvero lui fosse, aveva smesso di sentirsi inutile. Aveva smesso di indossare quelle maschere che facevano piacere solo agli altri. Aveva avuto l’umiltà di chiedere aiuto perché voleva cominciare a vivere.

E diceva così, “cominciare” e non “ricominciare” ed era brutto da sentire. Era come rinnegare il prima. Come dire che non esisteva un prima. Mi venivano i brividi, e invece Ludovica faceva sì con la testa.

E non piangeva, ma stringeva gli occhi come fanno i miopi per mettere a fuoco quando non hanno gli occhiali, perché guardare dentro di sé in profondità è difficile perché la prospettiva è sempre distorta e hai bisogno di qualcuno che ti aiuti a delineare contorni e a definire immagini. Aveva capito Ludovica. E quando è tornata a casa ha cercato lavoro e ha trovato anche un posto.

Simonetta Molinaro, 31 luglio 2023

 

 

1 commento

  1. Comiciare, ricominciare…
    L’importante è tirare una riga, mettere un punto e poi guardare avanti.
    Ti manderò il mio racconto cara Simonetta che parla proprio di un lutto imprevisto che va a rimescolare le carte della vita.

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