L’amicizia che sfida il tempo. “Dove sei?” “Al mare nostro”

La mia suoneria di Whatsapp è un cinguettìo, per distinguerla dalle altre notifiche. Quando hai un figlio che vive lontano il telefono è ideale prolungamento della tua mano, devi essere sempre presente, vigile.

Lo sanno tutti, che rispondo subito. Anche quando sono le cinque del mattino e Francesco dorme qui, nella sua stanza, nel suo letto, con i gatti a vegliarlo.

Non ho ammiratori sgarbati, e mia madre non usa “Lozapp”. Ma lo sapevo chi era. La mia amica.

Perché era da un po’ che mi raccontava di questo malessere e di queste discussioni con il marito. Della rabbia, le incomprensioni, i sospetti, le certezze. Le cose non dette, le risposte a metà, i complimenti mancati che se sei bella e nessuno te lo dice, perdi il gusto di vestirti e truccarti, e sistemarti i capelli, e osare biancheria improponibile sotto camicie da suora di clausura.

Mi diceva queste cose al telefono, ma non era più come quando andavamo all’Università e io cercavo una sistemazione ed ero arrivata lì, da lei, che era bellissima e bionda, con i capelli lunghi e mossi. La casa era discutibile, ma piena di luce e lei simpatica.

Poi aveva una gatta e io un gatto, ed eravamo così contente io e Simona, che per un caso fortuito ed incredibile siamo anche della stessa città ma non ci eravamo mai viste prima e ci era sembrato un segno del destino incontrarci lì, con quasi lo stesso nome e quasi gli stessi gatti.

Che invece, dalla prima volta si sono odiati e, in due anni, si sono sempre dignitosamente ignorati, tranne la prima notte, in cui Melissa non mi faceva uscire dalla camera per andare in bagno e soffiava come una pazza e Aladino è uscito dalla stanza e ha messo le cose in chiaro, e non si sono mai più incrociati, neanche per sbaglio.

Comunque, noi invece andavamo d’accordo e tra esami, lezioni, fidanzati e gatti che si detestavano, sedute sul letto a gambe incrociate ci raccontavamo le nostre vite, che per puro caso si svolgevano secondo copioni paralleli.

E passavamo intere serate a cercare di risolvere problemi che ci sembravano gravissimi e che dopo, negli anni, quando ce ne ricordiamo, ci facciamo tenerezza per come eravamo giovani e ingenue. E per come lo siamo, ancora, in un certo senso.

Ingenue. Anche quando di anni ne sono passati quasi trenta e qualche capello bianco fa capolino e anche qualche chilo, magari. E la vita ci ha separate fisicamente, ma non nel cuore, che ognuna è in quello dell’altra e quelle chiacchierate sono ora al telefono. O a Natale, quando torniamo entrambe nel posto dove siamo state bambine, e dove anche travolte dal fiume di gente che invade il corso principale, siamo sempre riuscite a trovare un posticino abbastanza tranquillo, per recuperare.

O in qualche week end rubato, perse nei musei delle città d’arte e drogate di caffè senza zucchero, a svaligiare librerie e a misurarci scarpe entrambe con il problema del numero, io troppo piccolo lei troppo grande, che i negozianti non capiscono perché troviamo questa cosa tanto buffa. Numero diverso, ma smalto dello stesso colore. Ogni volta, prima un messaggio.

Chi fa prima, decide. Senza parole, solo il colore. “Rosso” “Nero” “Geranio”...e l’altra si deve adeguare e mandare reperti fotografici ad attestare la fedeltà al patto, e ogni volta ci diciamo che se qualcuno entra in uno dei nostri cellulari, finiamo diritte in una chat di feticisti. Ma non importa.

È il nostro modo di sentirci ancora quelle due ragazze, e vicine poi. Quando avevamo una boccetta di smalto in due e ce lo mettevamo sedute per terra, davanti alla portafinestra della camera mia, che non c’era neanche il parquet, ma un marmo brutto e gelido. E poi, ogni tanto a giugno, tre giorni al mare. Ma solo in quel posto preciso. Perché il mare è bello ovunque, ma lì ha un profumo diverso. Quello è il nostro mare.

Su quella spiaggetta tutta bianca, con i ciottoli levigati al posto della sabbia, con l’acqua trasparente che ti vedi i piedi, con quel ristorantino appoggiato lì, proteso verso l’azzurro, dove mangi benissimo e bevi meglio, ma noi campavamo della vera specialità della casa, pane e pomodoro, con il pane condito anche nella parte inferiore, quella che poggia sul piatto e questo non te lo aspetti, con i pomodorini a pendolo e l’olio verde e pungente, e l’origano fresco e profumato di salsedine, e quel pane bianco e morbido, contenuto in una scorza nera e croccante, cotta nei forni a legna di certi borghi che su questo mare si affacciano anche se sono in montagna, che è il fascino di questo luogo.

Dove trovi l’azzurro del mare e il verde della macchia mediterranea, le grotte di sassi e la foresta, l’eremo e la movida. Dove anche il Fai si ferma incantato. Era questo il posto del nostro cuore. È questo. Per questo è scappata là.

Quando ho letto il suo nome, ho capito che era successo qualcosa. Le cinque è presto, in effetti. “Me ne sono andata, l’ho lasciato, ha confessato, il mio è allontanamento volontario.”

Anche questo linguaggio è un gioco tra di noi. Lei una donna di legge, io la criminologa. Da quando già a Bologna vedevamo “Chi l’ha visto” il mercoledì e ci piaceva un sacco Donatella Raffai con i suoi smalti pazzeschi, che un po’ la fissa allora cavolo ce l’abbiamo sempre avuta, e quando è morta abbiamo pianto, sinceramente dispiaciute.

“Sì, ma dove sei?” “Al mare nostro” “Va bene, arrivo”

La più scontata delle situazioni. Il giovedì sera, il calcetto, la pizza dopo. La cameriera della pizzeria, con quella vocina sottile e garbata che piace agli uomini che hanno le compagne forti, e un po’ le patiscono. Qualche battuta, lei che arrossisce, gli sguardi che si incrociano, gli amici che ridono e forse, sfidano il maschio conquistatore nascosto in ogni maschio.

E poi, il copione trito, con loro due che si incontrano nel parcheggio dietro la pizzeria e l’errore supremo, tornare a mangiare la pizza lì, con tua moglie che nota certa confidenza e ti chiede, ma tu neghi. Negare sempre, mi dicono.

Fino a quando le due donne non si incrociano per caso in piazza e l’altra si blocca, pietrificata. E non c’è bisogno di dire niente.

Lo ha aspettato seduta al tavolo della cucina, ma da mangiare non aveva preparato niente, aveva tirato fuori solo una valigia piccola, e la aveva messa già in macchina. E lui ha confessato questa cosa successa senza un motivo, solo per il gusto della conquista, forse.

E ha provato a fermarla, ma poco convinto, perché la conosce. E perché si vergogna.

E mentre scendevo, parlavamo io e lei al telefono, e piangeva e diceva che forse, se avessero avuto dei figli, sarebbe stato diverso, perché senza è come se mancasse un pezzetto e i gatti, anche quelli dopo Melissa, non bastano a fare famiglia e il prete che profetizza “piccola Chiesa domestica” non sa quello che dice. “Non c’entrano i figli, siamo noi Simona, i figli sono un alibi, a volte. Ma tu, tu che vuoi fare?” le chiedevo.

Ma la conoscevo già la risposta, la percepivo tra le lacrime e le grida e la rabbia. Così mi sono fermata all’autogrill, e ho mandato un messaggio senza parole, ma solo con le coordinate, a quel marito che era scivolato. E a Termoli sono uscita dall’autostrada, per poi fare inversione e tornare a casa.

Che, con e senza figli, a volte è rifugio, a volte prigione e comunque anche i gatti aiutano.

Simonetta Molinaro, 9 luglio 2023

 

 

 

Simonetta Molinaro

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