Tutto quello che ora diciamo su Giulia non ha senso: guardiamo al “come”
Dire che Giulia dovesse andar via da casa quando ha scoperto la seconda vita del compagno è vittimizzazione secondaria.
Dire che Giulia non dovesse cercare il confronto e nemmeno accettarlo se proposto da lui è vittimizzazione secondaria.
Dire che Giulia dovesse accorgersi, nel tempo della convivenza con il suo uomo, dei segnali che sicuramente lui lanciava è vittimizzazione secondaria.
Dire che Giulia non dovesse accettare l’incontro con l’altra è vittimizzazione secondaria.
Tutte le cose che diciamo ora hanno un senso perché non c’è niente di male ad insegnare alle donne, e in generale alle potenziali vittime, a prestare attenzione ai segnali, quelli famosi che ci sono sempre e che ad ogni terribile episodio salgono agli onori della cronaca.
I segnali, questi sconosciuti. Quelli che tutti invochiamo nelle prime ore dal fatto, ma poi ce li dimentichiamo un’altra volta.
Perché non li vogliamo vedere. Noi, tutti. Famiglia, scuola, amici, colleghi…tutte quelle situazioni di controllo informale che invece tanto potrebbero e dovrebbero fare nell’ottica seria di una prevenzione sociale e comunitaria. Invece, tutti muti. Persi tra i “forse”, “non credo, dai”, “sei sicura?”.
E intanto il tempo passa e le cose possono solo peggiorare, ma noi speriamo di aver compreso male quella volta in cui ci sembrava di avere visto o sentito o intuito e che tutto si possa ricomporre o rientrare.
E contemporaneamente le cose che diciamo, ora che Giulia è morta con il suo bambino, non ce l’hanno più un senso.
Esattamente come dire che Alessandro è un mostro, che merita la pena di morte, che anzi si deve suicidare perché solo quello darà la misura del suo pentimento, se ci vorremo credere, accusare la sua famiglia di averlo coperto, di avere nascosto lati del suo carattere. Minacciare il suo avvocato, evocare lavori forzati e vendette divine.
Non ha senso, se non quello provocato dal comprensibile e giusto orrore che umanamente tutti proviamo, ma il nostro ordinamento impone un processo giusto per chiunque e prevede il diritto alla difesa. E noi questo ordinamento e i diritti li dobbiamo difendere.
Non ricuseremo il nostro sistema per un Alessandro qualsiasi.
Che, sinceramente, non cercherei nemmeno di analizzare attraverso tutte queste disamine psicologiche o psicopatologiche che leggo in giro. Sarà compito dei professionisti chiamati a farlo.
Scomodare ora teorici della sociologia o del comportamentismo, indagare sul suo passato per sapere se maltrattava gli animali, chiederci come mai non ha funzionato la deterrenza, la paura della riprovazione sociale, del giudizio della società che noi sappiamo su certi soggetti funzioni più della paura della pena, facendoli desistere dal compiere atti criminali.
Non perché ci ripensino, pentìti e spaventati da quello che stavano per fare, ma solo perché realizzano che in fondo non gli conviene. Pensano a quello che perderebbero e Alessandro ad un primo sguardo potrebbe sembrare un soggetto che fa caso all’apparenza, ad essere in un certo modo. Lo dice sua madre, piangendo, “era sempre educato”. “Non era così, non so cosa sia successo”
Non lo sa nessuno signora. Forse non lo sa neanche lui, che però la dà una spiegazione in realtà.
“Ero stressato” dice. E non riuscendo a controllare la rabbia derivante dalla frustrazione di non sapere gestire questo “stress”, la riversa all’esterno. Potrebbe sembrare davvero “la banalità del male”, e ci possiamo credere perché non vediamo scrupoli in questo gesto terribile, ma di contro non ha risposto certo a nessun comando, se non quello suo interno. E allora possiamo mutuare questa “spiegazione”, concedetemi tutte queste virgolette e tanta cautela.
Perché quando “l’esterno” è la tua compagna, incinta al settimo mese di tuo figlio, non esiste “banalità“.
E oltre a chiederci perché è successa questa tragedia e perché ne continuano a succedere, dobbiamo per forza chiederci “come” prevenire, “come” intercettare, “come” intervenire, “come” affrontare.
Perché dire “come” implica un’attenzione, un pensiero, una cura, una pianificazione, una strategia. Quando dici “perché” è già troppo tardi.
Simonetta Molinaro e Francesco Raganato, 4 giugno 2023