Racconti di vita in Emilia-Romagna sull’orlo della tragedia
Abbiamo appuntamento davanti alla piccola edicola votiva che si trova all’inizio del piccolissimo posto dove abita, prima dell’ultima frana, la più grande, quella che isola lei e le altre sei persone che vivono qui.
Chi per romanticismo, per affacciarsi a destra su una valle e a sinistra sull’altra, a contare le rocche che qui sono assai e ciascuna ha la sua storia, più o meno efferata, più o meno magica, più o meno esoterica, più o meno triste, quando non sanguinaria. Come tutte le rocche che si rispettino, d’altro canto, quelle che hanno fatto il proprio dovere e la storia. E ancora resistono, come i ponti dei Romani e attirano gente da tutto il mondo, compresi coloro i quali una volta tornati a casa provano a riprodurle, magari in scala, con la speranza di aumentare il turismo. Tutti belli con i monumenti degli altri.
Qualcun altro è qui per scelta, come lei, anche se vivere isolati è relativo, quando dalla vasca idromassaggio che hai fatto installare sul terrazzo di casa, quello con il portico se dovesse piovere, vedi il nulla, ma nulla si fa per dire, guardando bene. Campi coltivati e fattorie didattiche e animali sparsi contenuti da recinti che non si vedono ma si sentono e vedrai che la prossima volta non ci provi a scappare. E poi stese di pannelli fotovoltaici su campi digradanti, come certi giardini all’italiana e come certi posti meravigliosi della Costiera Amalfitana, profumati di limoni, di mare e di ricordi teneri.
E soprattutto con il tuo suv fai prestissimo a svalicare e ad arrivare giù al mare dove ti chiamano capo e tutto il giorno corri avanti e indietro perché lavorare ti piace troppo e deleghi il giusto. E tuo nonno, che ti ha insegnato tutto, ti ha sempre detto che se vuoi che una cosa funzioni come desideri tu, tocca che un occhio ce lo butti.
Solo che a sera cerchi la solitudine, il silenzio e scappi qui, come nei film di Hollywood. Il buen retiro tra libri da leggere fino a notte fonda davanti al camino in inverno e sul terrazzo da aprile a settembre, magari con una copertina leggera di fianco che non si sa mai, sigari che impestano la valle, liquori invecchiati in botti buone con certi sentori che non saprei riconoscere e soprattutto ricordi tra la ferocia e la tenerezza.
La Ginetta che abita di fianco ti pulisce casa e ti prepara le tagliatelle e i tortelloni alle ortiche o di borragine e un liquore pazzesco che nulla ha da invidiare, se non la forma del contenitore, a quelle bottiglie pregiate che ordini in Internet e che ti fai consegnare giù, perché quando la prima volta hai inserito l’indirizzo di casa il corriere ti ha lasciato un biglietto dicendo “mai più, per favore” ma non perché sia impervio.
Solo perché quella volta ancora non c’era numerazione e se non sapevi dove andare giravi a vuoto come durante le feste in piazza del mio Sud, dove cammini stordito tra le bancarelle delle copete e dei formaggi tipici, con gli orchestrali che continuano a suonare dentro la cassa armonica, ma non ne trovi il senso perché la musica non si sente e se si sente è sempre fuori contesto.
Come il navigatore che si perdeva tra queste montagne gentili e non trovava le case e il corriere ha ritardato tutte le consegne successive della giornata.
E così ora le fai arrivare al mare e le porti su da sola, che ce la fai benissimo, sei gagliarda ancora. Nonostante i dolori della vita che non ti ha risparmiato, te come tutti, e ne hai ancora le tracce addosso. Cicatrici invisibili ma dure come cheloidi, a ricordare che lavorare va bene, ma ad un certo punto bisogna tornare a casa soprattutto se ci sono i figli, che non è vero che misurano il tempo in qualità.
Questa è una cosa che deve aver inventato uno che a casa non gli piaceva stare e si giustificava così, raccontandosela e raccontandola. E poi come la migliore delle fake si è propagata a macchia d’olio e poco importa ormai la fonte.
I figli vogliono anche la quantità. Vogliono che andiamo a prenderli a scuola, che partecipiamo ai colloqui, vogliono che sappiamo riconoscere i nomi dei loro amici quando decidono di raccontare le cose che gli succedono mentre noi facciamo, giustamente, carriera. E diventiamo ricchi, per loro naturalmente. Per farli studiare magari all’estero, per dare strumenti e possibilità, che un giorno mi ringrazierai. È così, sicuramente.
Eppure.
Il figlio le ha perdonato l’assenza fisica giustificata dal lavoro indefesso. Ha perdonato il non distinguere la maestra a righe da quella a quadretti, le ha perdonato non essere andata a vederlo gareggiare quando vinceva le medaglie in piscina. Le ha perdonato tutto. E le vuole bene, certo. Ma fa la sua vita, senza di lei semplicemente.
Non sente il bisogno di chiamarla, neanche dopo che è morto suo marito che è anche suo padre. Lavoravano insieme e litigavano anche quando tornavano a casa. Non erano mai d’accordo e tenevano il punto per giorni e giorni.
Erano tranquilli perché c’erano le nonne, che sono le colonne delle famiglie ma non possono sostituirsi a una madre e a un padre.
Possono aiutare e correre nella necessità, ma alle gare dovevi venire tu, le ha detto. A prendermi all’aeroporto quando tornavo dai viaggi studio dovevi venire tu. Ad accompagnarmi a comprare il vestito della laurea volevo andare con te.
Cose sciocche? No. Le cose della vita, le cose che uniscono e che rendono complici. L’amore che si materializza, che si fa presenza, che tocca, che abbraccia. Che arriva all’improvviso, rimandando una riunione con un cliente importante o un incontro con i fornitori.
La pizza tiepida mangiata sul divano di casa, a piedi scalzi e con il cane che raccoglie le briciole cadute, raccontandosi la giornata è più gustosa del miglior piatto nel miglior ristorante stellato. E non si tratta di non essere mai contenti o ingrati o non apprezzare il valore delle cose avute o che si sono potute fare.
È che non mi conosci davvero mamma. Come non mi conosceva papà.
E vi voglio bene, ma mi mancano dei pezzetti, e potrei farti mille esempi e raccontarti episodi, ma se li pronuncio ad alta voce perdono di potenza, e il mio dolore viene sminuito e invece è il mio dolore e voglio che sia rispettato. Andando avanti, sia chiaro. Metabolizzando ed elaborando, perché sono adulto e capisco, ma ho bisogno di tempo. Adesso ti lascio, vado a giocare con mia figlia. Volevo solo sapere se l’alluvione ti ha messa in difficoltà. Ciao, ci sentiamo.
“Non mi chiama mai mamma” me lo ha sussurrato davanti all’edicola votiva, prendendo la busta che le ho portato. Le medicine che prende, sigarette prese a caso al bar tabacchi, riviste vecchie perché i corrieri sono bloccati sull’A14, pane, frutta avvizzita, salumi sottovuoto, tonno in scatola, pasta.
Le poche cose rimaste sugli scaffali delle due botteghe, mentre ci guardiamo tutti smarriti e scrutiamo quel monte che ci pende sulla testa, ringraziando Dio che sia stato messo in sicurezza l’anno scorso e un po’ ci sentiamo miracolati.
Non so cosa dirle. Tutto sembra inutile, vuoto e retorico quando di mezzo ci sono sentimenti feriti e qualcuno che soffre. E soffrono tutti in questa storia, nessuno sottovaluti nessuno.
L’abbraccio e scappo, che certe volte è meglio ed è l’unica cosa che possiamo fare.