Si sente spesso parlare di natalità o, meglio, del suo opposto “la denatalità”. Nascono sempre meno bambini; è un trend negativo che va avanti da anni, già dagli anni ’80. Al calo della popolazione italiana si aggiunge anche quello di migranti e stranieri che vivono nel nostro paese, usato spesso come tramite per raggiungere Germania, Francia o i paesi scandinavi.
Il problema, comunque, non è sentito soltanto in Italia ma anche nella maggior parte degli Stati membri dell’Unione Europea. E le conseguenze del fenomeno della denatalità ha delle gravi ripercussioni su tanti aspetti della società, a cominciare dalle politiche sociali, dalla scuola e dalle Università, dall’economia in generale e così via.
Le cause del fenomeno della denatalità sono davvero tante, in primis quelle economiche generali perché meno lavoratori attivi portano ad una diminuzione della produzione di beni e servizi e, in più, le instabilità politiche nazionali ed internazionali, tra guerre vicine e lontane, comportano l’aumento dei costi delle materie prime e, quindi, dei beni e servizi necessari alla vita quotidiana delle famiglie con stipendi sempre fermi da decenni, al contrario del potere di acquisto in costante diminuzione.
Una delle cause principali attribuita alla denatalità è anche la crescita dell’età media delle donne alla prima maternità aumentata da 28 anni a 32 circa (e non sempre voluta). Il desiderio, più che legittimo, di completare gli studi, pensare alla carriera lavorativa o anche semplicemente alla libertà personale, ha portato a rimandare la gravidanza in avanti negli anni.
In realtà, è la mancanza di politiche sociali a sostegno delle donne lavoratrici e della famiglia in generale ad aumentare il rinvio temporale delle gravidanze o, in alcuni casi, alla rinuncia alla maternità. Finché non si attuano delle politiche sociali rivolte specificatamente alla famiglia e alla maternità, assegni cospicui per i figli a carico e servizi di assistenza all’infanzia, scuole a tempo pieno su tutto il territorio nazionale, non è facile invertire il trend negativo delle crescite.
Per affrontare il problema della denatalità non bastano palliativi o il semplice aumento degli assegni familiari. Basterebbe ispirarsi alla legislazione degli altri paesi europei, a paesi come la Danimarca, ad esempio, definito “campione europeo” nell’assistenza all’infanzia.
Sicuramente famiglie contente di avere, a quel tempo, contributi economici fino al secondo anno di età del bambino per l’acquisto di tutto quello che serve per far crescere dei piccoli (dall’acquisto dei pannolini a quello di passeggini, vestiario ecc.).
Anche in Francia e nei Paesi Bassi esiste un’ottima assistenza all’infanzia e da qualche anno si sono visti miglioramenti anche in Germania e nel Regno Unito, mentre ancora poco in Spagna e in Italia.
Le misure a sostegno dell’infanzia sono prevalentemente di tipo fiscale, con detrazioni parziali (in Italia con dei limiti e al 19%) per le spese degli asili o in alcuni paesi con totale deduzione; in Germania, ad esempio, si concedono anche 235 euro per bambino al mese dalla nascita e fino a 25 anni di età a tutti i genitori senza limiti di reddito.
L’Unione europea ha deciso di sostenere l’assistenza all’infanzia già nel 2022 fissando nel Consiglio europeo di Barcellona il seguente obiettivo: “il 90% dei bambini fino a 3 anni deve avere accesso, in tutti i paesi dell’Unione, ai servizi di assistenza all’infanzia a prezzi accessibili e di alta qualità”. Purtroppo non sarà facile raggiungere tale obiettivo per la complessità burocratica, a volte, dei sussidi e le forti differenze tra i diversi Paesi o nell’ambito di uno stesso Stato tra diverse zone del territorio (si veda l’Italia con le enormi differenze tra nord e sud).
L’interesse dell’Unione europea per i problemi e le difficoltà esistenti realmente nel crescere dei bambini e favorire, quindi, la natalità fa ben sperare di per sé.
Speriamo di non dover dare retta a quel proverbio che dice “Chi di speranza vive disperato muore”.
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