StatoDonna,23 aprile 2023. “Hai capito cosa mi dice? Che sono cambiata, che non mi riconosce e che non gli piaccio più”. Ho capito, certo. E mi parla, ma forse parla da sola in realtà. Siamo sedute davanti al terzo caffè, di fuori in questo giardino pieno di vento a tratti freddo che sembra ottobre e non aprile, di fronte ad un monte che si vanta di esserlo e lo sembra anche, ma in miniatura, come quell’Italia che da qui dista pochi chilometri. Un monte che in realtà è a malapena una collina, se la geografia non è cambiata. E mentre parla io penso ad altro, per evitare di risponderle.
Non mi concentro troppo su ciò che mi dice, perché altrimenti la tentazione di risponderle potrebbe vincere orgogliosa e potrei pronunciare parole che nessuno vuole sentirsi dire se prima da solo non le ha realizzate. Non voglio essere la sua terapeuta, non voglio essere il principe che la sveglierà neanche con un bacio, di questi tempi poi. Non voglio essere l’amica pietosa che le apre gli occhi e che lei poi odierà perché dovrà mostrarle eterna gratitudine e soprattutto perché le ricorderà costantemente il suo fallimento.
O meglio quello che lei percepisce essere il suo fallimento. Non voglio essere l’amica saggia, quella con la parola giusta al momento giusto, quella di cui nessuno si preoccupa perché tanto lei è forte, non ha bisogno. No, non ci sto.
E sorrido dentro a questa semicitazione, che vorrei esplicitare battendo un pugno simbolico sul tavolino dell’Ikea già però messo a dura prova da due bicchieri di Spritz che sostituiscono i caffè e che sembrano le tinozze di certi racconti nostalgici, e poi vassoietti di arachidi, patatine, olive Taggiasche e fazzolettini di carta dove abbiamo poggiato i noccioli perché si sono dimenticati il piattino dedicato. E allora lo trattengo il pugno e faccio lo stesso con certe parole che, sole, salirebbero.
Pensare di avere sempre ragione protegge dal doversi mettere in discussione, e accusare l’altro di essere prepotente ci fa sentire vittime innocenti.
Al netto del fatto che se a cinquant’anni tu fossi com’eri a trenta mi preoccuperei di più. Se ti dice che prima eri meglio, forse è perché anche lui lo era o forse perché riusciva ad esercitare più controllo e ora, che vai oltre l’idea che aveva su di te, la sua delusione si trasforma un risentimento, o in una paura che non sa elaborare e affrontare, e gli riesce meglio attaccarti.
O forse sei cambiata davvero, ma non c’è niente di male in questo. Si cambia nel dolore e con dolore, ma succede a tutti e poi ci si aggiusta in corsa, magari.
Non te le voglio mica dire queste cose. Ti guardo di sbieco mentre parli, con gli occhiali da sole e le mani magre, mentre ti copri il viso per non farti fotografare e dici “Dai che sono brutta” E invece sei bella, di una bellezza autentica, con le sopracciglia folte, le labbra carnose e quei capelli bianchi che sono già tanti e sono un vezzo in mezzo a quelli neri, e non li tingi perché in fondo ti piacciono, anche se dici che non lo fai per non essere schiava del parrucchiere.
Credo che l’elaborazione debba essere tua più che sua e che forse è cominciata ma non lo sai, non lo hai ancora capito. E penso che se sei partita io ti vengo dietro, in una specie di cordata dei sentimenti, dove quello davanti tira quello dietro, che lo spinge. Così magari sarai tu l’amica che salva per essere salvata.
L’amica fragile che ripara con l’oro. E mi sento meglio, e scende meglio anche questo aperitivo che si fermava in gola prima, e ti sono grata come se mi avessi svegliata, anche con un bacio va bene, e non percepisco nessun fallimento ma solo una leggerezza che, sento, mi travolgerà.
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