StatoDonna, 16 aprile 2023. “Perchè vedi, Simonetta, l’amore da solo non ce la fa”.
Era un’insenatura piccola piccola che mi aveva fatto conoscere lui, qualche anno prima. Protetta dal vento, ma in faccia al mare tanto che le onde ti arrivavano sul viso e ti entravano le goccioline nel naso, e respiravi quello iodio e quell’acqua che poi qualche anno dopo si sono inventati lo spray con l’acqua di mare e io gli dicevo ridendo “Ci siamo fatti fregare l’idea” perchè quell’aerosol naturale lo potevamo brevettare noi, su quella spiaggetta microscopica, dove io mi sedevo su una coperta piegata mille volte e guardavo Francesco correre avanti ed indietro, con la giacca a vento che lo proteggeva, respirando quell’aria profumata di sale.
Poi, a casa, una doccia bollente e per tutta la sera lo guardavo soffiarsi il naso che colava come una fontanella, con quelle sue manine lunghe, un po’ impacciato, ma non voleva aiuto. “No mamma, da tolo” diceva anticipando la sua autonomia e l’orgoglio di esserlo.
La mattina dopo, guarito. E io adoravo quel posto, anche per questo. Ci andavo quando dovevo riflettere. E poi ci andavo con Archimede, quando eravamo in vena di confidenze.
Ero passata da lui quel giorno, prima di andare a lavorare. Mi aveva preparato il caffè e mi aveva fatto trovare una crostata alla marmellata di arance. “Te la manda Teresa” la sua fidanzata, quella dei capelli tirati e della polizia, che di me non era gelosa e poi adorava Francesco, vero destinatario del dolce. “Sono a dieta” era stata la mia risposta immancabile, mentre avevo già dato tre morsi alla fetta che mi aveva messo in un piattino di quella ceramica avorio e blu, di Grottaglie, rustica e ruvida.
“Lo vedo” mi aveva risposto in dialetto ridendo, e poi aveva detto “Dai, andiamo al mare.” E il mare d’inverno per noi era quello, non era il lido chic dell’estate, popolato di gente molto abbronzata, molto elegante, molto tutto.
Quando sai di sbagliare, ma non vuoi sentirtelo dire, vuoi solo essere ascoltato e consolato, anche. Perché senti come se la luce che hai dentro sia un po’ offuscata, ma non spenta, e ti accorgi quanto la bellezza che cerchi sia più bella di quella che trovi.
Quando hai tante domande e cerchi risposte che non arrivano e, quando arrivano, non sono quelle che volevi. E chiedi ancora, e ancora.
E facevamo così anche noi. Mi raccontava di quel suo amore così forte per Teresa, che la amava e la odiava perché anche se litigavano e lei era prepotente e logorroica e voleva avere sempre ragione, lui non riusciva a lasciarla.
Mi parlava della decisione di lei di non avere figli perché, al contrario di lui che viveva scalzo da aprile ad ottobre, era una donna in carriera, con un ruolo importante, e aveva i viaggi, e gli impegni. E poi, ad un certo punto, il cambio di passo e l’improvviso desiderio di maternità.
Mi raccontava di quelle gravidanze che si erano interrotte da sole, tre, sempre quasi alla stessa settimana, e lei non ne voleva parlare perché non riusciva a non piangere e non sopportava che le dicessero di non farlo. Di andare avanti, e di non pensarci più’. Come se potesse essere far finta di niente il modo giusto per stare meglio.
Eravamo seduti lì, nel nostro posto, e lui mi raccontava di quei pomeriggi interminabili, con lei che piangeva e poi gridava e poi lo stringeva forte. La prima, la seconda, la terza volta. Lui a cercare di comprendere un dolore per qualcosa che non si vedeva, che provava a sentire suo ma non ci riusciva fino in fondo, e soffriva perché lei soffriva. Il dolore per il dolore. Fino a quando avevano detto “Basta”.
Si erano ritrovati, come due eterni fidanzati, ciascuno a casa propria, che si sbirciavano dalla finestra, gelosi ma senza ammetterlo.
Poi era passato il tempo e si erano un po’ induriti ed allontanati, ma non potevano stare separati per molto.
Dovevano stare vicini per dirsi quanto fossero distanti, offendersi per poi piangere e gridarsi l’amore. Tradirsi per poi ritrovarsi.
Solo che lui era stanco. Era stanco di quell’amore selvaggio ed ossessivo, di quelle lotte senza fine, di quelle discussioni nelle quali entrambi perdevano, di quella passione che li lasciava senza fiato. Avvertiva il tempo che passava e, quella solitudine che tanto gli piaceva, la sentiva adesso come una gabbia.
“Glielo devi dire” provavo ad accennare. “Non capirebbe” mi rispondeva. Ma non comprendevo dove finiva l’ostinazione di lui e dove cominciava quella di lei, e così non riuscivo a trovare qualcosa di giusto da dire, che poi, cosa era giusto?
Era il loro amore, la loro vita, e quasi lo invidiavo quel fuoco che li pervadeva e che li aveva mantenuti vivi, ma che a lui sembrava non bastare più.
Lo osservavo di nascosto mentre guardava il mare e lo scoprivo più vecchio, con le rughe bianche sulla faccia abbronzata anche d’inverno, e i capelli che avevano perso il vigore e vederlo fragile mi dispiaceva e un po’ mi faceva sentire persa perchè avevo bisogno della sua mano salda e del suo sguardo fermo.
“Guarda la’. Vedi che luce, Simonetta? E’ bella a quest’ora e rivela tutto di noi, anche quello che vorremmo tenere nascosto, rivela la verità. E la mia verità è che ho bisogno di tenerezza.”
Ne parliamo spesso di quel giorno, di lui che torna a casa e glielo dice e di lei che lo abbraccia senza parlare. Ne parliamo quando ci vediamo d’estate, e al telefono adesso che sono lontana. Da quella terra e da quella spiaggetta minuscola e da quel vento amico, pieno di mare.
E da lui, e da lei e dal loro amore ora finalmente tenero, che fa bene al cuore.
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