www. statoquotidiano.it. Francesco mi ha salvata sul suo cellulare come Mater. Madre. Cavolo, ho pensato la prima volta che l’ho visto.
Come Michelina, che aveva la quinta elementare e agiva per istinto e buon senso. E che per me rappresenta la Pasqua. Non le uova di cioccolata, non le torte Pasqualine, sicuramente il Benedetto. Ovunque io sia stata ho sempre trovato il modo di recuperare da qualche parte il salame, la ricotta, le uova sode, il limone, un’arancia. Ho sempre assemblato tutto su un piatto e segnato questi cibi con un rametto d’olivo che rappresenterebbe le Palme, benedetto dalla domenica precedente.
Benedire il cibo è un atto che trascende le religioni. È ringraziare chi ha lavorato per quel cibo, è ringraziare di averlo e di poterlo condividere. Poi, il mio Benedetto è altro. È mio padre che nei giorni precedenti alla Pasqua portava me e Gianluca con lui a prendere le materie prime dai contadini qui delle nostre campagne. I confinanti, quelli che i loro ulivi iniziano dove finiscono i tuoi, un po’ come la libertà.
Quelli che quando arrivi ti accolgono nelle loro case e ti fanno sedere alle loro tavole, che quasi mai sono apparecchiate. Mi piaceva assai andare da Michelina. Arrivavamo con la 500L turchese, che a Foggia tutti lo sapevano che era la nostra e papà e non l’ha mai voluta abbandonare, neanche quando ormai si spegneva un giorno sì e l’altro pure e li dovevamo andare a recuperare entrambi, lui e la macchina. “Tanti anni di onorato servizio” le diceva accarezzandole la carrozzeria e si vedeva che le voleva bene.
E lui la prendeva sottobraccio e insieme andavano a sedersi sotto al portico, dove c’era qualunque cosa. E dove ero rimasta tutto il tempo quando mi ero scoperta allergica alle graminacee il giorno del mio compleanno, a 10 anni, quando eravamo andati lì ad inaugurare il forno a legna e io credevo di morire per gli starnuti che non avevano soluzione di continuità.
E tutti mi allungavano fazzoletti e mi davano buffetti sulle guance quando passavano, ma a nessuno venne in mente di portarmi via dall’antigene. La focaccia bollente mangiata tutti insieme era più importante della mia allergia che mi sono portata dietro fino ai vent’anni, quando l’ho sostituita con quella ai pioppi che a Bologna sono dappertutto e ti nevicano addosso e non c’è antistaminico che tenga.
Comunque Michelina ci faceva trovare un salame intero da portare a casa, e uno a fette sul tagliere per assaggiarlo perché non si sa mai. E la ricotta, ancora calda, nel fuscello bianco traforato per farla scolare. E anche di quella un doppione pronto per noi, con delle forchettine piccole e il pane con la crosta nera, cotto in quel famoso forno a legna, e lei lo tagliava appoggiandoselo sulla pancia e tirando verso di sè il coltello, a serramanico e con la punta leggermente ricurva, che mio padre la guardava di traverso e lei rideva e diceva -Stai tu qua, mi porti in ospedale prim d’ subb’t-
E ridevano, loro che si conoscevano da bambini e si volevano bene, da quando suo padre lavorava per il mio bisnonno e giocavano insieme e mangiavano con le mani dallo stesso piatto che la mia bisnonna portava a tavola per suo marito, i suoi figli, e per tutti gli operai che lì lavoravano e vivevano con le famiglie. E i bambini correvano e ogni tanto aiutavano i genitori a svolgere delle piccole incombenze che li facevano sentire grandi.
Pronta ad imparare tutte quelle ricette che Michelina le insegnava la domenica quando andavamo a trovare lei e la sua famiglia, il marito Peppino e tutti i figli. Cinque, nati a pochissima distanza l’uno dall’altro e poi tutti quelli che i servizi sociali affidavano loro, in tempi in cui le cose erano più facili. E loro erano una garanzia per quei ragazzi portati via da situazioni complicate. E lì crescevano sereni, mangiavano, cercando di dimenticare i luoghi da cui arrivavano e vedendo come nel mondo esistessero delle brave persone cui ispirarsi, e che li trattavano con semplicità come figli propri.
La mattina Peppino li caricava nel camioncino con il cassone aperto e li portava tutti a scuola e poi li andava a riprendere e dopo mangiato facevano i compiti sotto al portico se il tempo era buono, oppure dentro, nel magazzino, vicino ai fusti di olio e alle cassette di verdure che aspettavano di partire. Una volta al mese, di solito una domenica, papà li andava a visitare, passandoli in rassegna come al militare e noi andavamo con lui aspettando che fossero tutti dichiarati abili e potessimo giocare a nascondino nella casa del bisnonno Saverio, dove facevamo finta che ci fossero anche i fantasmi e scappavamo ridendo di chi aveva veramente paura.
Michelina li amava tutti. Ci amava. Da mamma e da madre. Con la potenza del legame fisico di chi ti porta in grembo e la dolcezza di chi ti accoglie veramente, non solo per nascita. Senza timore di darsi troppo.
È a lei che penso quando vedo la Processione dei Misteri a Foggia, quando vedo la Madonna che corre letteralmente incontro al suo Figlio morto, con la musica greve che mi stringe il cuore e le gambe che vogliono correre insieme a Lei, per sollevare con Lei il suo ragazzo e sollevare Lei da tutto quel dolore.
È quello che faceva Michelina, andare incontro. Non aspettare, non solo accogliere. Andare incontro. Tendere mani. Abbracciare. Quello che auguro a tutti noi. Di avere qualcuno che ci venga incontro e di andare noi incontro agli altri. Abbracciandoci.
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