StatoDonna, 2 aprile 2023. Era gentile, nei modi e anche quando parlava. La guardavo trasformare la realtà in un modo soave e mi incuriosiva questa modalità fatata in cui i cattivi non esistevano, le principesse non morivano mai e tutti vivevano felici e contenti. Ho scoperto dopo che lo aveva fatto prima per rendere migliore la vita ai figli, e dopo per non dare loro dispiaceri, che erano lontani e saperla sola era pesante.
Le mani piccole, i piedi minuscoli, la statura e la corporatura minute rendevano lei stessa una specie di fatina dei boschi. Cercavo di guardarle le orecchie quando le portavo le medicine, sperando di trovargliele a punta e ogni volta tirando un sospiro di sollievo per la delusione. Era reale, non usciva nelle notti magiche, che però parliamo di elfi e gnomi e non di calcio, a raccogliere fiori da mettere a macerare in ciotole di acqua piovana per poi farne abluzioni propiziatorie per trovare fidanzati e mariti. E si era forse immedesimata nel luogo dove viveva, dove le leggende si sprecano e anche oggi quando percorro quella strada tra due boschi con la macchina, facendo finta di perdermi perché lo so bene che da lì non si arriva da nessuna parte, lo faccio in silenzio e con una lentezza infinita, sperando di intravedere un’ombra, un piccolo abitante di questo posto, dove ci sono più lucciole che persone e dove le notti di primavera sono profumate, se sai sentire.
E se sai ascoltare poi ti fa compagnia il frinire dei grilli quando cade il buio ma se sei fortunato e becchi il crepuscolo, senti anche le civette, che poi sono i maschi che cantano per attirare le femmine, i civetti. È un suono che nelle città non si sente di certo e mi ricorda così tanto mia nonna e la sua casa rossa con la torre, nella bassa ferrarese, dove andavo alla fine della scuola fino al momento di andare al mare, e dove il pergolato di uva fragola e la vite, che si arrampicava sul fronte, assicuravano il fresco prima che l’umidità arrivasse a tormentare le giornate estive. Allora si stava bene solo in casa, con le persiane socchiuse e le tendine di pizzo che svolazzavano per la corrente che riuscivi a creare tu.
Per questo forse mi piace venire qui. L’ho scoperto per caso questo posto, sbagliando strada davvero la prima volta, pensando di prendere una scorciatoia e invece mi ero trovata davanti una chiesina e qualche casa intorno. E lei, Iside, seduta sull’aia ma senza le galline. Una panchetta di pietra e un tavolino bianco rotondo di ferro battuto, un po’ arrugginito ma garbato, e sopra un cestino di legno, quelli con i manici e i due cassettini che si aprivano e svelavano il mondo di sotto, che quello di mezzo è meglio di no.
Mia nonna lì dentro custodiva spagnolette di ogni colore e bottoni di ogni foggia, che non ne buttava via nemmeno uno perché non si sa mai. E mi chiedeva in dialetto “infilami l’ago, la mia bambina” e io lasciavo il filo lunghissimo e lei sorrideva e ne spezzava una parte “se il filo è troppo lungo la sarta l’è matta” e non ho mai saputo se fosse davvero un modo di dire o se magari se lo inventava lei perché il filo lungo era scomodo, e mi prendeva un po’ in giro.
Iside invece lì, scoprii quel giorno stesso, riponeva con cura il cotone e l’uncinetto con cui produceva infinite strisce di filet. Catenella, catenella, catenella, punto alto, chiudi. Andava avanti per ore. Angeli, cuori, rose. E poi fatine per quadretti, e puttini seduti spalla a spalla per coprire spalliere di divani su cui non si sedeva più nessuno, ormai. Perché i figli arrivavano ad agosto, nelle due settimane centrali, quando perfino laggiù c’era movimento, a parte il prete che veniva a bere il caffè e a mangiare la piadina dolce una volta alla settimana. E a parte quelle tre famiglie che abitavano nelle case vicine, che le facevano la spesa e passavano veloci per un saluto.
Ma Iside era contenta della sua solitudine. I figli facevano delle puntate veloci tra un viaggio ed un convegno. Lui architetto, lei avvocata, telefonavano tutti i giorni, lui la mattina lei la sera e qui correvano appena potevano, ma poi andavano via ogni volta cercando inutilmente di portarla in città. “La prossima volta” diceva Iside “prima devo sistemare una cosa”.
“Mo non è mica vero” rideva poi con me. “Voglio morire qui, e devi dirgli tu che mi devono cremare e poi devono spargere le mie ceneri sotto al cedro”. “Ma Iside, non si può”.”Mo chi vuoi che lo sappia? Te sei troppo precisa”.
Me lo diceva spesso quando le portavo le medicine, perché quello era compito mio e anche se non le serviva niente ci andavo lo stesso. Mi sedevo sulla panchetta a fianco a lei, e mentre bevevamo il caffè mi faceva fare un pezzo di bordo, controllando che non si vedesse la mano diversa. Poi ho cominciato a portarmi il lavoro mio, la domenica pomeriggio, mentre Francesco inseguiva i gatti e noi stavamo lì, a contare catenelle o crocette, a cucire passamanerie damascate o di gros con i motivi natalizi quando poi in inverno ci trasferivamo in cucina, davanti al camino che poi immancabilmente io e Francesco il lunedì avevamo la laringite e lei niente. Mi allungava un po’ di vov e anche per quello tornavo a casa con le guance rosse che nemmeno Heidi, e per fortuna conoscevo bene la strada.
Ma soprattutto tornavo con la pace nel cuore. Quei pomeriggi lenti e pieni di silenzio, con la testa a tenere il conto e le mani a misurare, mi aiutavano a mettere a posto pensieri che si inseguivano più veloci dei rimpianti, dei rimorsi, delle soluzioni, dei cambi di passo.
Le cose che mi erano sembrate nebulose mi si rivelavano definite da contorni netti e quello che mi era apparso troppo regolare sfumava in una specie di Fata Morgana più rassicurante, in cui la fantasia aveva un ruolo determinante nella rimodulazione del problema.
Poi, finite le nostre opere, come scherzando le chiamavamo, le riponevamo nella carta velina e in un baule che stava in cima alla scala di legno che portava alle camere da letto, in attesa della figlia che poi portava tutto a casa sua, in città, dove la pesca missionaria permanente della parrocchia viveva di rendita fino all’agosto successivo.
E poi ogni tanto mi raccontava. Di una vita difficile. Rimasta vedova presto e con due figli piccoli che non voleva solo sfamare, ma li voleva dottori, perché dovevano essere liberi. E allora non si tirava mai indietro quando c’era da lavorare, e andava a fare le pulizie da certe signore della città dove si erano trasferiti lei e il povero Giovannino appena sposati. E siccome era brava e discreta, le signore pagavano bene, si passavano la voce e le regalavano anche i vestiti che naturalmente non potevano indossare più di una volta. E ogni vestito in più erano soldi inaspettati, perché lei li rivendeva e quello che prendeva finiva in un salvadanaio ogni volta destinato a qualcosa, ad un progetto al quale anche i bambini partecipavano con convinzione. Poteva essere il circo, oppure delle scarpe nuove, oppure un paltò, o una visita al museo.
E ogni volta festeggiavano l’obiettivo raggiunto con una coppa di crema, e le uova gliele dava la signora che abitava al piano terra in quella casa di ringhiera, che aveva tre galline e usava le uova come merce di baratto. Con lei in cambio delle iniezioni per il male alle gambe. Il latte, quello non mancava mai per i bambini ed era la sua unica cena, con un goccio di caffè, unico lusso non negoziabile, rimasto dalla mattina e gelosamente custodito in un bricco dentro al mobile sopra al lavello.
E per fare la crema doveva rinunciare alla cena per tre sere, ma lo faceva volentieri e ai figli che chiedevano come mai non mangiasse raccontava di un po’ di mal di pancia, “magari ho preso freddo” diceva.
Descriveva ai suoi ragazzi le case dove andava a lavorare, davvero belle e lussuose, e le persone che lì abitavano. Ed erano sempre storie di gente brava e generosa, con difetti normali. “Aggiustavo qualcosina” mi diceva sorridendo. “Non volevo mica che crescessero invidiosi.”
Mi faceva tenerezza quella donna e ne ammiravo la semplicità saggia e ad agosto quando arrivavano i figli era una gran festa anche per me, che tenevo Francesco per mano e gli dicevo “Guarda”.
E lo stesso facevo io, commossa, mentre loro si baciavano e si abbracciavano così stretti, e avevano sguardi pieni di tante cose condivise e di pochi segreti che ciascuno di loro faceva finta di non sapere per non turbare gli altri due. Stavano un mese tutto il tempo a chiacchierare e a ricordare, e ogni volta erano storie nuove e anche quelle meno belle venivano ridimensionate ma senza stucchevolezze inutili o fastidiose. Semplicemente si mettevano da parte, si lasciavano andare senza rancori e quella forza mi sembra ancora oggi invidiabile ed esemplare. E quel cedro, ancora più bello.
Simonetta Molinaro, 2 aprile 2023
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