StatoDonna, 26 marzo 2023. Cammino verso la Cattedrale di Foggia seguendo pensieri che si attorcigliano come le stradicciole che ho scelto di percorrere invece di seguire quella solita, più lunga e più comoda. Sono su via Saverio Altamura, dove tira un vento che anche ad agosto se non hai la giacca ti ritiri con la bronchite, con i ristoranti e le luci tutto l’anno che ti sembra di stare in Grecia ma senza mare. Perché il mare un po’ ci manca.
Ne sentiamo l’odore in certi giorni che un vento clemente non ci porta la sabbia del deserto, ma il profumo della salsedine che però forse ce la immaginiamo soltanto, giusto perché sappiamo che quelli a nord sono i monti del Gargano. Che poi a scuola lo studiamo pure che è un promontorio, ma se dici Gargano dici mare. Per noi foggiani “Gargano” è questo, certo, ma è anche Padre Pio, che noi lo chiamiamo così, come se fosse uno zi’ prev’t qualunque, nonostante sia santo e lo sappiamo benissimo, ma speriamo nella sua ironia, e sempre sia lodato. Gargano è anche Monte Sant’Angelo. Per il pane con la sua crosta nera e croccante e la mollica bianca e profumata, e per San Michele, forse esattamente in quest’ordine, ma non è bello da dire.
Comunque continuo lentamente e giro verso il Teatro, perché passarci davanti mi fa fare un salto all’indietro di quarant’anni quando, bambina, con le mie compagne della scuola di danza a giugno diventavamo padrone incontrastate dei suoi camerini, dove ci preparavamo per il saggio di fine anno da sole o con l’aiuto di qualche mamma anche se però un po’ soffrivamo perché volevamo sentirci autonome, grandi. Ci truccavamo davanti a quegli specchi con le lampadine come le attrici, attente a non guastare lo chignon che doveva resistere fino a sera e con il quale dovevamo arrivare già da casa, perché il trucco ok, ma il parrucco sarebbe stato troppo.
E mangiavamo pane e ciliegie dietro alle quinte mentre le altre provavano, e nessuno ci ha mai detto di stare attente al peso. E le corse quando toccava a noi e non eravamo pronte e la maestra Paola ci guardava che ci voleva uccidere ma noi facevamo finta di niente e ballavamo speriamo leggiadre, sicuramente felici. Proseguo verso la Chiesa dei Morti, in piazza Purgatorio, che non sai quale delle due si chiami in conseguenza dell’altra. Un gioiello barocco, in una città troppe volte distrutta e ricostruita, che certi tesori li custodisce senza neanche sapere di averli. Il soffitto ligneo a cassettoni in foglia d’oro, i mosaici di pietre preziose, le statue di marmo. Il pavimento a losanghe bianche e nere che per me è un richiamo alla Confraternita dei Bianchi e dei Morti che commissionò la realizzazione della chiesa per accogliere le anime dei purganti, ma non sono una storica dell’arte e vado a sentimento, ad intuito. Rifletto.
E mentre cammino immersa nella suggestione mi ritrovo a ripetere la più famosa delle giaculatorie, l’unica che conosco tra l’altro, e chiedere perdono per tutte le colpe è quasi un comportamento automatico, frutto non degli anni delle elementari dalle suore, ma retaggio di un periodo vissuto in Salento, in un posto dove ci sono più chiese che persone e ogni giorno passava una processione con i confratelli fieri nelle loro vesti con il colore dedicato. Azzurro alla Madonna, nero alla Morte, rosso alla Trinità e dove ho imparato che per fermare la processione e aspettare gli ultimi, devi dire “Ave Maria”, mica puoi gridare. “Ave Maria, Ave Maria” si ripete uno dopo l’altro e tutti come un’onda ci si ferma.
Anche fermarmi davanti a San Domenico è istintivo. E sbirciare dentro, cercando il silenzio particolare di queste mura tra le quali, quando papà era malato, venivo a cercare conforto. A volte trovandolo, a volte no ma quelle luci natalizie che andavano da parte a parte erano belle e comunque mi scaldavano e mi regalavano speranza. E sono su corso Vittorio Emanuele, la parte però meno glamour se l’altra lo fosse, la più vera, quella dove per camminare devi guardare a terra, cercando di mettere il piede sulla parte centrale delle pietre che compongono il pavimento stradale e non tra le fughe, soprattutto se hai i tacchi, e qualcuno ce lo abbiamo lasciato, in certe sere dove la luce dei lampioni quasi liberty non bastava ad illuminare la strada, complice magari un calice di prosecco che sdoppiava la vista. Uno solo, il decisivo.
E improvvisamente sono di nuovo bambina, quella che camminava saltando come se giocasse a campana ma senza gessetto e senza sassolino da riprendere. E piano piano arrivo davanti alla Cattedrale e a quel campanile così bello e bianco, che ti guida da lontano, piccola vedetta pugliese che si affaccia su quelle strade che altrove si chiamano giravolte, ma qui non siamo troppo romantici e non le appelliamo in nessun modo, o forse mi sfugge, si accettano suggerimenti.
La piazzetta, questo è stato il massimo risultato del nostro impegno, ma non è il nome che conta. Conta che per anni ci siamo incontrati qui, quando i Giardini erano diventati terra di nessuno e noi, che tornavamo dall’università, non conoscevamo una persona, una, delle giovani generazioni e ci trovavamo tutti lì, come le star a bere del whisky in localini mannari che non erano il Roxy bar e poi a mangiare quintali di cornetti che ancora mi deve passare il colesterolo.
Inseguo pensieri tortuosi come queste viuzze, mentre mi giro verso quello che era il Bel ami, che mi piaceva assai con quei soffitti e quella musica che evocava luoghi esotici e quella gente che oggi non saprei riconoscere, e neanche loro me. Guardo tutto con affetto, senza rimpianti perché non soffro di nostalgia, e non vivo nel passato. Lo ricordo spesso solo perché attingo, da quelle che oggi sono diventate emozioni ma allora erano vita, le risorse per quando mi sembra che le cose potrebbero andare meglio.
E mi rifugio nella bellezza. Perché, per carattere e per giusti incontri, io la bellezza l’ho trovata anche dove magari non era immediato vederla. Come in questo luogo che amo, a prescindere da certi proverbi e certi pregiudizi che non gli rendono giustizia. E come in tutte le cose della vita. Perché la bellezza non è certo la perfezione o il rispetto dei canoni, ma è nell’essere compiuti. Nell’essere consapevoli di avere un compito da svolgere, una consegna da rispettare. E non c’è dignità più grande di quella di chi, seguendo la strada che vuole, facile o difficile, riesce a realizzare quanto affidatogli. È quella la bellezza. Nelle persone, negli animali, nelle cose, ovunque.
Che tu sia il campanile della Cattedrale o la pietra non sempre d’angolo. La Foresta Umbra o le celle scavate nei massi degli eremiti di Santa Maria di Pulsano. La piazzetta o il sassolino ripreso da terra. Il Teatro Giordano o quelle ballerinette che ridevano troppo. Pancotto e rucola o gli scagliozzi. La passeggiata sul Corso o la pizza da Vittorio. La Villa Comunale e il suo propileo che non è un pronao. Il palazzo dell’Acquedotto o i cavalli stalloni.
È la bellezza che non segue la linea del tempo e dei tempi, ma quella sua, con i corsi e i ricorsi che a volte sono storici e a volte no. È quella della quale siamo composti, come la sostanza dei sogni, ma di cui siamo fatti sempre, anche da svegli e anche quando ce ne dimentichiamo. È quella bellezza che abbiamo dentro di noi, che raccontiamo ai nostri figli, che riconosciamo negli altri. Nelle persone che ci portiamo dietro, in quelle che ci sono da sempre e in quelle che incrociamo per un attimo. Nelle persone che ci tendono la mano o si aggrappano alla nostra. Nelle persone che incontriamo per la prima volta e sentiamo sorelle. Nelle persone che avevamo messo in un cantuccio ma che sentivamo nel cuore e magari le abbiamo ritrovate e le parole sembrano troppe o troppo poche.
La bellezza semplice di chi apprezza le piccole cose, quella che ci fa sembrare ingenui e che invece è la nostra forza, il nostro nutrimento, la nostra speranza. Quella che ci salva e che ci salverà.
(in foto di copertina Ludovica Molinaro)
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Articolo meraviglioso ♥️
Talento nella scrittura … ✍️