La bella estate di Foggia, della passeggiata sul corso e quei rituali eterni

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Foto: Mangano

StatoDonna, 19 febbraio 2023. Era, la fine di luglio, un momento bello dell’estate. Un tempo lungo, e pigro con mattine assolate e afose, quelle in cui il riverbero del sole sulle pietre bianche delle strade del sud, è accecante e si riflette sulle viuzze del centro storico, sotto la Cattedrale con il suo campanile che svetta orgoglioso senza però offrire una vera ombra generosa. Quelle mattine in cui non si esce di casa se non è indispensabile.

E pomeriggi ancora più lunghi, in cui cercare e trovare riposo è impossibile. Ho ricordi vivissimi di terrazze bianchissime e giardini d’inverno che d’inverno avevano solo il nome, pieni di piante che avevano il compito di fare frescura, ma non ci riuscivano poi tanto. Ci sono, nella mia memoria, persiane socchiuse per far filtrare poca luce e un vento caldo, che non ti portava via ma sollevava tende di lino leggere come garze, profumate come campi di lavanda, ricamate da mani abili di suore di clausura, antichi corredi di giovani spose.

Pomeriggi in cui il pavimento di legno era tiepido sotto i piedi nudi e cercavi quello di ceramica dei bagni e della cucina, fresco e ancora umido a portare un po’ di sollievo, nella penombra silenziosa, aspettando il tramonto. Che arrivava, puntuale con il suo vento leggero spinto dai monti vicini. Monti piccoli, ma dignitosi con la loro aria tersa e pulita. 

Era, quella, l‘ora della passeggiata sul Corso, perché noi in provincia facciamo così, abbiamo piccoli riti rassicuranti e condivisi. Sempre uguali, eterni. L’aperitivo, che poi diventava una cena, un vino bianco fresco, gustato tra chiacchiere maliziose su nuove coppie e consumati tradimenti, in certi posti chic nei pressi del nostro bel teatro, intitolato ad un musicista illustre, concittadino famoso di cui siamo tutti a ragione fieri.

Oppure in quei localini piccoli, davanti ad una delle cento chiese sparse per il centro storico, dove oltre a bere, approfittavi per chiedere protezione a qualche santo clemente, e perdono per certi peccati inconfessabili ma anche un po’ ostentati, perché la vita qui è lenta, alle volte monotona e bisogna trovarsi un diversivo ogni tanto. E comunque sono peccati veniali, suvvia.

La passeggiata sul Corso si concludeva con il calare della sera, tiepida e profumata, e tornando verso casa ci faceva compagnia il rumore dei tacchi su quelle pietre levigate, stradicciole dai nomi curiosi, come vico Serafico che di serafico ha giusto il nome, perché quel selciato un po’ sconnesso ti strappava qualche parolaccia e molte risate, per la paura di cadere, ma anche perché il vino un po’ non lo reggevamo davvero, e un po’ ci giocavamo.

E questa strada oggi ci sembra più di una metafora anche troppo semplice. È come un’autobiografia collettiva, è quel percorso sdrucciolevole che se non fai attenzione puoi anche cadere, e farti male. Piccoli accorgimenti, come togliersi le scarpe con i tacchi o piccoli aiuti, come la mano di qualcuno cui tenersi, servono per prendere meglio le misure o sentirsi più sicuri. Ci siamo passati tutti prima o poi da vico Serafico, come in un Monopoli, ma vivo. Se rimani in piedi, poi camminerai meglio.

E tiravamo notte sotto casa, a ridere piano per non disturbare chi dormiva, a fidanzarci e a sfidanzarci, giovani e un po’ sfrontati. E simpatici, che ridevamo come matti e non avevamo pensieri se non quelli delle vacanze di agosto che ci avrebbero separati, per poi vederci di nuovo insieme a settembre, con nuove storie da raccontare, nuovi posti da descrivere, nuovi amori di cui vantarci, amori che poi in inverno avremmo dimenticato, dopo qualche lettera piena di malinconia e ricordi che con l’arrivo dell’autunno diventavano sfocati e sembravano comunque meno interessanti di come erano apparsi sotto il sole d’agosto.

Luglio era dolce, carico di promesse e profumato come quel gelsomino nel giardino d’inverno, come i tuoi diciotto anni e adesso il profumo è lo stesso ma tu no, e ti mancano quella leggiadria, quelle speranze, e quei sogni che ti coloravano la vita.

(foto in copertina di Alberto Mangano)

Simonetta Molinaro, 19 febbraio 2023