Moda, musica e parole di Sanremo fra paillettes e felpe americane
StatoDonna, 9 febbraio 2023. Fa tenerezza Will, vestito di bianco come un angioletto mentre canta al festival di Sanremo respirando profondamente come dentro ad un sacchetto di carta, ma è comprensibile. Ventitrè anni sono davvero pochi per non emozionarsi sul palco dell’Ariston, ad aprire la serata poi, seguito dai Modà che arrivano con la divisa. Camicia bianca e gilet nero per i ragazzi della band, camicia nera e gilet nero per il leader indiscusso, con la sua voce potente a cantare rime più o meno baciate e più o meno rime.
Però l’acuto non me lo dovevi fare Checco, che Albano, Morandi e Ranieri arrivano tra poco e sono cavoli amari. Ed è una gara la loro senza vincitori, perché la grandezza non ha podio. E pazienza se qualcuno pensa che siano troppo anziani. La grandezza non ha neanche età, e rischia di offuscare tutto il resto. Commoventi perché non nostalgici ma immersi in questo tempo.
Poi arriva Sethu, di corsa, con il vestito che la sarta non ha fatto in tempo a finire ed è tutto mantenuto con delle graffette. E lo presenta Francesca Fagnani che farà contenti i puristi, gli snob, quelli che hanno criticato la Ferragni per la conduzione di ieri sera. La Fagnani sa parlare e nessuno avrà nulla da replicare su quello che dirà. Anche se ha sbagliato il nome del primo cantante che ha presentato. Setù, lo ha chiamato, ma non importa, l’emozione è democratica. E poi è talmente elegante in Armani, che le perdoniamo tutto, anche quel velo color carne che le mortifica il décolleté. Ed è sorridente, che di solito sembra arrabbiata e invece è così bella quando ride. E continuerà a ridere anche quando arriverà inevitabilmente qualcuno a dire che è raccomandata anche lei. Se ne farà una ragione, “ringrazio il dottore e vado avanti”.
La stessa cosa che vorrebbero fare gli Articolo 31, rassegnandosi all’idea del tempo che passa e del viaggio compiuto, anche “senza funghetti”. Bianchi candidi e commossi forse anche per il fatto di essere di nuovo insieme e la nostalgia qui è più canaglia.
Torna poi il lamè con Lazza, che canta “Cenere“, e racconta di come sia complicato essere primi in classifica ma sentirsi ultimi nella vita, lasciando però la porta aperta alla speranza di rinascere insieme. E il tatuaggio sul viso ci ricorda qualcuno, ma “lui” è un modello cui ispirarsi e al momento Lazza me lo ricorda soltanto. Si farà.
Giorgia invece non ha bisogno di parole. La faccia che sembra quella di ventidue anni fa, le stesse sopracciglia, la voce pazzesca. La canzone meno, ma è pensiero mio, e comunque splendida, lei e il tempo che per lei non passa.
Pegah Moshir Pour e Drusilla Foer parlano delle donne iraniane e della libertà che non hanno. Che dovrebbero avere. Che noi tutti, con loro, dobbiamo invocare perché nessuno giri la testa dall’altra parte facendo finta di niente.
Il mondo è circolare, non ce lo dimentichiamo, tutto torna, e se nel 2023 ci sono cose inammissibili, tutti dobbiamo combattere.
E poi la Fagnani tira fuori due spalle da nuotatrice da un top di paillettes nero con scollo all’americana, abbinato a pantaloni aderenti, che sono una scelta coraggiosa per il palco dell’Ariston, ma non delude per niente, fa gli sketches con Amadeus e Morandi e presenta Colapesce e Di Martino, vestiti uno da monaco zen e uno da bambino che si deve fare la Comunione. Non mi chiedete chi sia vestito da chi, li confondo, ma la canzone è bella proprio, sono geniali, mi ricordano le atmosfere di Battiato. Top.
E se siamo qui a raccontare degli stilisti e degli abiti bellissimi dei nostri cantanti, ci fanno male gli occhi a vedere gli ospiti internazionali di felpa vestiti e con i maglioncini legati in vita come quando andavamo in montagna a dodici anni. Però sono bravi questi Black Eyed Peas e fanno ballare il teatro, anche i maestri che ieri folleggiavano con i Pooh.
E subito il karma ci colpisce e dopo le felpe che abbiamo tanto criticato, celebrando l’eleganza italiana, arriva Shari tutta di leopardo, a cantare una canzone che non mi ricordo già più, ma quegli stivali li dimenticherò difficilmente. Arriva poi Madame, vestita anche lei come un angioletto.
Devo dire che quest’anno il bianco candido va per la maggiore. Ieri il nero oggi il bianco. Madame canta una canzone molto bella con la sua voce particolare, ma lei non mi appassiona, lo devo dire. Stessa cosa per Levante, vestita come Catwoman ma senza maschera, con i capelli biondissimi e i sandali da cubista. Lei brava ma la canzone, boh.
E Tananai, con la giacca che indossava ieri Gianni Morandi, o così mi pare, ma nel caso sarebbe una cosa bella perché il riciclo e il riuso sono giusti. Sostenibili e trendy. E canta “Tango”, che di tango ha solo il nome ma non la saprei ballare con una rosa tra i denti e poi lui mi sembrava triste, non so. E mi chiedo perché i cantanti di adesso non hanno nome e cognome ma si chiamano tutti in questi modi strani che forse io sono troppo anziana per comprendere e apprezzare. Stasera hanno nomi normali solo Giorgia e Paola e Chiara e mi perdoneranno ma forse sono anziane pure loro, mi viene da pensare.
Rosa Chemical, che almeno si fa chiamare Rosa, e ha le unghie ciclamino, il guinzaglio e dice, inequivocabilmente, “da due passiamo a tre, più siamo e meglio è”. La canzone ti cattura, lui è ironico e parla di diversità da accettare, al netto delle polemiche sulla sua partecipazione al Festival.
LDA canta vestito di blu elettrico, manco fosse Kate d’Inghilterra, ma parla di angeli anche senza lampi di candore tessile. E comunque il più giovane concorrente fa la sua figura, e almeno quando canta si percepiscono le parole e questo non è affatto scontato, non fate finta di capire quello che dicono. Paola e Chiara, inguainate nell’argento, sirenette 4.0, con boys di ordinanza e con questa canzone che sarebbe piaciuta a Raffaella Carrà, con atmosfere anni ottanta, balletti e luci da discoteca chiudono la seconda serata del Festival, che ha visto protagonisti i giovani, anche nel discorso di Francesca Fagnani la quale ha parlato dei ragazzi di Nisida, raccontando sogni, rimpianti, speranze. Per tutti il desiderio di futuro.
Quello che mi colpisce è il malessere che traspare dalle canzoni dei giovani. Ma non è più un dolore legato all’amore, è una cosa più profonda perché riguarda loro stessi, parlano di sé. I ragazzi di oggi vogliono stare bene, hanno scoperto loro la work life balance e noi, stakanovisti per senso di colpa, li guardiamo tra l’ammirato e l’invidioso. Eppure non li capiamo, come le parole delle loro canzoni, cantate con voci tremule per posa. Forse i sottotitoli potrebbero servire, un aiutino a volte cambia il destino delle cose e magari delle persone. A domani, Sanremo.