StatoDonna, 5 febbraio 2023. Iniziava il primo di ottobre, la scuola. Da noi, faceva ancora caldo. Ma non nelle aule, su, al primo piano di quell’istituto che solo nel nome era un diminutivo, vezzoso, perché invece poi si ergeva imponente correndo lungo un isolato. Le aule, grandi e luminose, avevano finestre tondeggianti, ampie, a tutta parete, e affacciavano sul mercato della frutta. E, quando erano aperte, arrivava il brusio da giù, e si mischiava con il chiacchiericcio della classe.
Che si fermava solo quando suor Teresina spiegava. Allora, il silenzio era assoluto, ben integrato nel luogo, un vecchio convento dove avevano studiato molti dei nostri padri che ancora, la suora portinaia, suor Lucia, ricordava, perché li aveva conosciuti tutti e di ognuno ricordava il carattere. E il sopracciglio alzato parlava da solo. E i nostri padri ricordavano lei con affetto e tenerezza e noi non capivamo, perché Suor Lucia parlava poco, rideva meno ma soprattutto aveva dei baffi poderosi e noi, a sette, otto anni, vedevamo solo quelli. E ridevamo senza ritegno. Scappando come dei ladruncoli quando la incrociavamo per i corridoi infiniti, con quelle teorie di finestroni e quei pavimenti meravigliosi.
Loro invece, l’avevano avuta come insegnante, quando era ancora giovane e magari sorrideva di più, e i baffi non erano ancora apparsi, e con la sua voce tranquilla spiegava l’aritmetica come se fosse una cosa bella. A noi suor Lucia ci inseguiva, ma non ci prendeva mai, un po’ perché era anziana e un po’ perché le piaceva recitare la parte di guardiana che le era stata assegnata, ma faceva finta di non vederci quando riuscivamo a fuggire dalla classe e a scappare giù, al piano terra, dove c’era la suora musicista. Suor Alberta, che suonava il pianoforte a tutte le ore e insegnava musica. A me stroncò la carriera dicendo che avevo le mani troppo piccole. Prova con il violino, mi disse.
Ogni tanto me lo ricordo ancora, quel senso di inadeguatezza, che mi è servito poi ad essere cauta nel parlare con gli altri. Quasi sempre. Era bella quella scuola, piena di luce, con il chiostro al centro, ricco di piante che di quel luogo erano le padrone assolute, ed erano fiere ed arroganti, alte ed imponenti. E di pomeriggio, da marzo ad ottobre, erano fonte di fresco per le suore che, in cerchio, si fermavano a ricamare fino a quando faceva buio. In inverno, nel salottino. Lo so bene, perché spesso io e mio fratello ci andavamo, quando magari mamma aveva degli impegni e nessuno ci poteva badare.
La porta delle suorine era sempre aperta, per tutti. Lui scappava in cucina, dalla suora “cuciniera” come la chiamava, che preparava un pane e pomodoro che ancora certe notti me lo sogno. Io raggiungevo le altre che ricamavano lenzuola, tovaglie, tende. Cose meravigliose, candide, perfette. E mentre ricamavano, raccontavano di quando erano giovani. E ridevano un sacco. Si commuovevano, ricordando i genitori lontani, i fratelli, tirando fuori, da quelle maniche larghe che venivano, per lavorare, fermate con delle fasce immacolate bordate di elastico, foto di nipotini che vedevano solo qualche giorno all’anno. Scoprii, ad esempio, che nessuna di loro era suora per ripiego, magari per sfuggire a situazioni di povertà, o per riuscire a studiare. Erano convinte e gioiose, di una gioia autentica. Poca teologia tra quelle mura, molta semplicità.
C’era una suora bellissima. Due occhi blu. Mi sembrava strano e con l’ingenuità di bambina, glielo chiesi. “Perché fai la suora?” “Perché prima guardavo solo la mia, di bellezza. Poi, un giorno, ne ho scoperta una molto più luminosa”. Pensai che era stata fortunata, e oggi lo penso ancora. Non tutti scoprono la bellezza, non tutti la scorgono, non tutti la trovano. Perché non tutti la cercano. Era bello il pomeriggio dalle suore, perché arrivavano altri bambini. Chi faceva i compiti, chi aspettava i genitori che tornassero dal lavoro, chi aveva solo la mamma che doveva badare a tre fratellini piccoli e non ce la faceva a seguire il grande che doveva studiare. Poi c’erano le bambine “interne”, quelle che vivevano in convento. Famiglie in difficoltà, lontane, cose che sappiamo tutti. E le ragazze, bambine diventate grandi, che non sapevano dove andare. Tutte lì.
Scoprii che quelle lenzuola candide, erano destinate a diventare il corredo di signorine ricche, future spose di ancor più ricchi proprietari terrieri, signorine che arrivavano il sabato con i loro facoltosi padri a ritirare ciò che avevano commissionato mesi prima, con il sostegno di mamme accorte e previdenti. Forse leggermente invadenti. Venivano “dalla provincia”, come dicevamo noi, che ci sentivamo cittadini un po’ sprezzanti di quelle usanze che giudicavamo arretrate e anche ridicole, diciamolo pure.
E invece quelle lenzuola e quelle tovaglie, erano il capitale delle suorine. Che, grazie a quelle signorine della provincia, potevano aiutare le altre. Perché quella era una scuola privata, certo, con le divise blu e le camicie a quadrettini vichy, ma la retta era solo per chi la poteva pagare. Ed erano rette simboliche, tra l’altro. Chi non poteva pagare era lì lo stesso e non ce lo aveva scritto in fronte. E la divisa era la stessa per tutti.
Le suore erano democratiche e se ti dovevano sgridare non chiedevano l’ISEE. E un mio amico, figlio di un illustre avvocato, ancora gli fanno male le orecchie, per tutte le volte che gliele hanno tirate. E le gambe, per tutte le volte che è dovuto scappare al piano di sotto, a chiedere aiuto e accoglienza alla Madre Superiora, che all’occorrenza ci difendeva tutti.
Per inciso oggi è un avvocato anche lui, più illustre di suo padre e ogni tanto, durante le vacanze di Natale, ci siamo incontrati sul Corso, e morivamo dalle risate pensando a suor Teresina e al suo sconforto per il quale invocava “Santa Pazienza, vieni ti prego, non posso farne senza”. Lui dice che ha tormentato i suoi figli con quella frase e, ogni tanto, pure qualche cliente particolarmente molesto.Siamo stati per due anni compagni di banco, perché la speranza di suor Teresina era che, forse per osmosi, avessi su di lui una buona influenza. Confesso di aver odiato questa cosa. Oggi forse la capisco, ma ancora un po’ mi urta.
Però mi fa tenerezza quella suorina che, oltre ad insegnarci la grammatica, ha cercato di insegnarci il valore del non giudizio, dell’aiuto silenzioso, senza proclami e dichiarazioni, ma solo con la verità dei gesti e dei sentimenti sinceri. E mi fanno tenerezza quelle suorine che si distruggevano le dita, nell’immediato e nelle artrosi a venire, per ricamare corredi, che erano in fondo, speranza di futuro. Per chi ci avrebbe dormito e per chi, grazie ad essi, poteva permettersi di sognare vite migliori. E farcela, anche.
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