StatoQuotidiano, 24 gennaio 2023. Siamo inorriditi dai video ripresi al Don Uva di Foggia, dal fragore del suono delle botte, dalle urla strazianti, dal gesto di tagliar le lenzuola per incatenare qualcuno. Maltrattamenti aggravati, sequestro di persona, violenza sessuale, favoreggiamento personale nei confronti di almeno 25 pazienti ricoverati. Di questo sono accusate le 30 persone, fra operatori sanitari, infermieri e ausiliari, che sono stati raggiunti da misure cautelari nell’indagine coordinata dalla Procura di Foggia e condotta da carabinieri Nucleo Investigativo e del Nas.
Si tratta di degenti che si trovano in condizioni di incapacità e o di inferiorità fisica o psichica ricoverate nel reparto femminile di psichiatria di lunga degenza ed hanno tutte tra i 40 ed i 60 anni. I vertici della struttura non risultano indagati, scrive l’Ansa, a cui l’Ad Luca Vigilante ha dichiarato: “La nostra amministrazione, sin dal primo giorno, ha lavorato per la tutela dei pazienti, soprattutto di quelli più fragili sul piano mentale, chiedendo a tutte le Organizzazioni sindacali e a tutti i lavoratori l’autorizzazione all’installazione di telecamere anche nelle camere. Questo alla luce della delicatezza del tipo di lavoro. L’autorizzazione ci venne concessa solo in alcune zone, per giunta note a tutti i lavoratori”.
A quanto risulta, i maltrattamenti erano quotidiani: i 25 pazienti vittime di violenze venivano afferrati per i capelli e per il corpo, colpiti al volto con schiaffi e pugni e trascinati per i corridoi. Le condotte delle 30 persone colpite dai provvedimenti cautelari non finivano qui: ci sono anche gli abusi sessuali compiuti da un operatore su una donna e quelle dell’Oss che ha indotto un paziente a violentare una donna.
Dopo i fatti di Manfredonia a Stella Maris, anche a Foggia si scopre uno scenario agghiacciante, forse anche peggiore, personale che avrebbe dovuto curare, sì “curare”, che è amore e difesa, assistenza e comprensione, esperienza e duro lavoro che si impara e per cui, se non ci sei tagliato, meglio occuparsi di altro.
Quello che ci sconcerta, e che si ripete in casi come questi, è il sistematico uso della debolezza fisica e psichica dei pazienti per fare del luogo dove si lavora il proprio feudo di violenza e soprusi personali, sfruttando spesso la complicità, il silenzio, il fatto che quelle vittime non potranno raccontarlo nemmeno ai loro parenti, pensando di essere “blindati”, forti dello scudo della privacy, che ovviamente resta un valore come quello della persona, in particolare quella debole.
Siamo alla bestialità che avrebbe aizzato i malati a compiere violenze contro le donne, a una sorta di parco gioco sessuale, alla bassezza dell’umanità che veste il camice per cui si spendono, fra quotidiane fatiche, tante persone perbene e preparate a Foggia, e che amano il proprio lavoro. C’è un meccanismo, uno schema che si ripete sempre troppo uguale in ognuno di questi casi da cui si deve estrapolare un antidoto, a parte la giustizia oltre i cancelli dove qualcuno si sentiva probabilmente “blindato”.
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