Da padrone delle terre a sacerdote, storia della vocazione di Tonio

StatoDonna 22 gennaio 2023.Si alzava la notte alle tre. Si vestiva a strati perché, lavorando, anche in inverno faceva caldo e ci si doveva spogliare, e rimanere comunque vestiti, perché erano in pianura sì, ma mettendoti con le spalle al mare, di fronte avevi le montagne che erano lontane, ma non abbastanza da non mandare giù il vento che, nelle notti d’inverno era gelido. Perché nevicava lassù e lui lo sapeva molto bene perché a gennaio portava l’olio nuovo a certi amici del padre, e tante volte c’era la neve e per strada si moriva di freddo, e arrivava lassù congelato, che la macchina era vecchia e il riscaldamento rotto. Aveva l’abitudine di passare la serata da loro, a mangiare il pane cotto nel forno a legna, con quella crosta nera e croccante, e il prosciutto crudo, lavorato nelle notti di luna calante e comunque mai piena, e quel caciocavallo unico e un vino rosso che poi, nel viaggio di ritorno lo teneva caldo, e allegro.

E ne aveva bisogno, di allegria. A casa sua era poca, gente brava e perbene, agricoltori ricchi che pensavano solo a lavorare, perché in campagna è così, e a lui mancava tanto ridere di più. Gli piaceva assai quella preghiera di san Tommaso Moro, quella che parlava di buonumore e che lui recitava spesso, snocciolandola come un suo personale rosario, ogni volta che partiva per andare a lavorare. Perché lui, seppure grato per quello che aveva, nutriva altre ambizioni, altri sogni. Altre vocazioni. Invece, poiché era lui il padrone di quelle terre, si doveva alzare e poi passare a prendere gli operai che lo aspettavano davanti alle casette dove abitavano, lontani dalle famiglie, alle quali mandavano i soldi, ma che non vedevano mai e non si ricordavano i nomi di tutti i figli che avevano, e certe volte nemmeno quanti fossero. Ma erano contenti lo stesso, perché in quell’azienda pagavano bene, e trattavano anche meglio.

Il padrone e i suoi figli erano bravi, soprattutto Tonio, che li passava a prendere cantando, che nessuno capiva l’angoscia che a volte aveva nel cuore, quel senso irrequieto di non essere completamente nel posto giusto e comunque distribuiva certi biscotti di pasta di mandorle, che preparava sua madre una volta al mese, e che si scioglievano in bocca per quanto erano teneri, e profumati di agrumi, che facevano venire in mente il Natale e l’estate. Perché in quella terra le arance c’erano anche d’estate e da quelle parti erano una specialità.

Calzava scarpe pesanti, Tonio, adatte a camminare nella terra, quella terra dura che amava ed odiava nello stesso tempo. La amava perché era sua e di suo fratello e di suo padre e prima di suo nonno e del suo bisnonno. Era grazie a quella terra che la sua biblioteca era ricca di tanti libri, che già suo nonno aveva iniziato a conservare. Suo padre, meno interessato, tollerava poco il tempo che Tonio trascorreva in quella stanza, di cui lui non comprendeva, effettivamente, la necessità. Lasciava perdere perché sua moglie lo fulminava quando accennava a lamentarsi del figlio.

E la odiava, quella terra, perché lo teneva legato a sé, attraverso l’amore per i genitori e il fratello e la casa dove vivevano da secoli, lui che voleva scappare e si guardava i piedi e soffriva nel vedere quegli scarponi. Perché avrebbe voluto vedere dei sandali, invece.

Da frate. Da frate povero anche, come San Francesco. E vivere in quel convento piccolino, con quelle cellette silenziose e pulite che ogni tanto andavano a visitare, lui con la nonna e la mamma. Gli piaceva tutto. Il silenzio, la preghiera, i canti.

Aveva dodici anni quando aveva capito cosa avrebbe voluto fare. Ne aveva parlato con sua nonna, ed era stato facile. E con sua madre, che aveva già capito ed era stato ancora più facile. A suo padre lo aveva detto quando aveva quattordici anni, una domenica mattina mentre andavano in chiesa, e si era preparato due anni per dirglielo. Il padre non aveva pronunciato una parola, e così aveva fatto per una settimana. Con nessuno. Sua madre, imperterrita, faceva domande al marito e si rispondeva da sola, e faceva segni con gli occhi al figlio, come a dire “Non ti preoccupare, gli passa”. Gli passò.

La domenica successiva il padre gli disse “I tempi sono cambiati…i figli non ascoltano più i padri. Non ti basta la scuola?” Perché Tonio andava a scuola, naturalmente, e gli piaceva un sacco. Ma voleva entrare in seminario, e per far quello sarebbe dovuto partire. Andare in città. E infatti partì.

E tornava, in estate, ed era felice. E poi, dopo l’università. Aveva avuto subito l’insegnamento in un liceo del capoluogo, e aveva deciso di ritornare a vivere a casa. Si alzava alle tre, perché amava quel suo padre ruvido e andava lui a prendere gli operai per permettergli di dormire un po’ di più, perché l’età avanzava, anche se lavorava come un giovanotto e non si lamentava mai. Prendeva gli operai e rideva e pregava e lavorava anche con loro, gente semplice che bestemmiava solo quando lui non c’era, perché alle sette spariva, si cambiava al volo e scappava a messa, e poi a scuola.

Insegnava religione a ragazzi di sedici anni, e riusciva a catturarli con la forza e la grazia delle sue parole, con la potenza della sua vocazione dalla quale traeva la capacità narrativa ed evocativa che lo facevano sembrare, e lo era profondamente, diverso dagli altri professori. Li aiutava ad esplorare se stessi, e a riconoscersi, ad accettare limiti, fragilità, dolori, sofferenze. A gioire della bellezza, dopo averla apprezzata e scelta. Li spingeva ad osare pensieri di libertà, che si tingevano dei colori forti ed accesi della giovane età, perché quelli pastello erano tiepidi, e per i tiepidi. Raccontava il potere della verità che rende liberi, sempre, e l’amore per la vita che mai è scontata e sempre ti sorprende, se la sai capire. Ed accettare. E assecondare.

Li spingeva a raccontare sé stessi, senza timori e vergogne. A cercare strade poco battute, e sentieri impervi che rendano poi più dolce la conquista della vetta.

E fece così per dieci anni. La terra, la vocazione, la scuola. Con impegno, cura, dedizione, e sempre guardandosi dentro e invitando tutti a fare altrettanto, anche a costo di non essere compresi, o di non comprendersi, magari.

E, per amore di quella verità, i suoi ragazzi furono i primi ai quali raccontò ad un certo punto, tra le lacrime, di essersi innamorato. Di una sua ex compagna di scuola, incontrata per caso dopo tanti anni. Raccontò del turbamento e della crisi e del dolore, ma anche di una gioia rinnovata, che tutti gli riconoscevano. E quando pregava “Che uomo sarei, diceva, se facessi diversamente?”

Scelse, e a chi gli chiedeva rispondeva senza giustificarsi, ma con la forza dell’autenticità “Alla fine, è sempre stato l’amore, la mia vocazione”.

Simonetta Molinaro, 22 gennaio 2023

Simonetta Molinaro

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