Il fatale ultimo appuntamento e il fenomeno ormai endemico della violenza
StatoDonna, 19 gennaio 2023. Di violenza abbiamo sempre parlato. Noi, generazione cresciuta con Franca Leosini e Carlo Lucarelli, che abbiamo imparato con loro l’arte del laddering, prima ancora di tutti quei master di psicologia che abbiamo seguito da adulti. Nella mia libreria Agatha Christie era seconda solo a Topolino per numero di titoli presenti, e Dario Argento rendeva molto lunghe le notti bianche della mia generazione.
Poi arrivòla realtà, e in principio fu Cogne, che ci divise naturalmente tra colpevolisti ed innocentisti, anche se la tesi di chi condannava era ” non poteva non essere lei”, ma sinceramente questa spiegazione non mi convince mai e voglio vedere prove inconfutabili. Poi Erika e Omar, Olindo e Rosa. Assassini spietati che chiamiamo per nome, come se li conoscessimo ma il nome delle vittime, ce lo ricordiamo? No, ricordiamo solo l’orrore che abbiamo provato.
Poi Roberta Ragusa. E Yara Gambirasio. Meredith. Di loro invece ricordiamo i nomi più di quelli dei loro assassini. Diverso per Sarah Scazzi, e Sabrina e Cosima. E per Chiara Poggi e Alberto Stasi. Qui poi anche i luoghi, Avetrana e Garlasco.
Di ciascuna di queste storie, e ne potremmo citare tante altre, sappiamo tutto. Abbiamo seguito i processi mediatici e non, abbiamo letto libri, seguito interviste. Abbiamo analizzato scene del crimine calandoci nei plastici di Porta a Porta, e inseguito derive giustizialiste o garantiste in base ai conduttori del momento. Abbiamo appreso sconvolti e in diretta insieme alla mamma che il corpo ritrovato nel pozzo era quello di Sarah. Visto infinite volte il video dell’arresto di Bossetti e imparato a memoria il sequenziamento del DNA ritrovato sui leggings della bambina.
Tutto questo per dire che non siamo degli sprovveduti. Di tutte queste storie quello che ci ha sempre rassicurati è la distanza percepita tra noi e gli assassini. “È pazzo” ci diciamo alla notizia dell’ ennesimo femminicidio che nessun Codice Rosso pare riuscire a fermare e questa presunta follia ci fa stare meglio, perché ci fa inscrivere l’omicidio in un recinto, separato da noi brave persone timorate di Dio e sostenitori della famiglia felice.
Cerchiamo risposte nell’uso smodato di sostanze, in sottoculture pregne di violenza, in psicopatologie da Manuali, quelli seri che vengono pubblicati ogni tot anni. In raptus che poi abbiamo imparato che non esiste e lo abbiamo iniziato a chiamare “discontrollo episodico” come scrivono quelli bravi che ingenerano discussioni tra accusa e difesa, costretti a chiamare esperti per perizie dovute. E abbiamo guardato ai metodi scientifici come alla verità assoluta, cercando tracce come cani da tartufo, affascinati da CSI e dalla sua colonna sonora, ma niente per noi puristi è come Criminal minds, con la scienza integrata dalla psicologia o viceversa.
Perché la domanda è sempre la stessa, questa appunto. “Perché?” Ci chiediamo sempre cosa scatti nella mente di persone che trovano nella violenza le risposte a domande, dubbi, paure, abbandoni, tradimenti, silenzi, offese. Gente che ci pare normale e invece è capace di imbracciare fucili, caricare pistole, afferrare coltelli, guidare ruspe. E scaricare odio sull’altro, colpevole di alterità. Colpevole di essere diverso, di ragionare differentemente, di pretendere libertà e rispetto.
E la violenza sembra essere l’unica risposta per chi effettua il passaggio all’atto. Un linguaggio universale che non ha bisogno di interpreti e che anche noi usiamo quando ci scagliamo contro chi pensiamo colpevole, prima ancora della condanna definitiva, siamo noi la Cassazione, unico grado di giudizio che conosciamo.
Il problema vero è che ormai la violenza permea le nostre vite, le nostre relazioni. Non è più un’emergenza ma un modo di vivere, forse dobbiamo prenderne coscienza. Si uccide perché infastiditi, perché offesi, perché feriti. Non si è capaci di parlare, di ascoltare e di ascoltarsi. Non si ha la forza di rimanere da soli. Di accettare la diversità. Di ricostruire solitudini. Si uccide perché armati senza motivo e senza licenza. Oppure con permessi regolarmente rilasciati ma ingiustificati. Si uccide senza un motivo. Per rabbia o delusione o per l’incapacità di controllarsi. Per distruggere l’altro che ci si contrappone, che ci affronta.
Si grida, si aggredisce, si offende. Si ridicolizza, si umilia. Si “asfalta” scrivono sui social certi soggetti compiaciuti. Si danno esempi pessimi e si sottovalutano segnali e comportamenti. Salvo poi interrogarsi sui motivi, ma le risposte sembrano davvero inadeguate ed è fatica poi sentire che il colpevole è dispiaciuto quando non affranto. E quello che più di tutto colpisce è la mancanza di strategie.
Andare nelle scuole, parlare ai bambini partendo dalla scuola dell’infanzia fino alle secondarie, sperando di superare contesti e messaggi sbagliati è assolutamente necessario, lo abbiamo capito tutti. Ma il problema grosso è parlare con la gente più adulta. Uomini e donne infarciti di cultura vecchia, cresciuti immersi in un patriarcato tossico, in cui la violenza era metodo correttivo socialmente accettato. Gli uomini che da vittime (laddove gli si sia stato sempre vietato di vivere le emozioni proprio in quanto maschi) diventano carnefici con la violenza che diventa anche il loro modo di esprimersi, seppure non percepita come tale e quasi mai ammessa e riconosciuta.
E le donne? Vittime esse stesse di un’educazione maschilista, costrette ad essere soggetti passivi, a subire maltrattamenti, offese, umiliazioni, violenza fisica, psicologica, sessuale. A nascondere capelli e corpi, visi e sorrisi. A cercare di compiacere per sopravvivere. A non dare fastidio. A chiedere soldi per fare la spesa. A rispondere a domande tendenziose o ironiche su abbigliamento o abitudini sessuali.
Uccise per aver concesso un ultimo appuntamento, consapevoli che non si fa, ma ti senti quasi che glielo devi. E morire tra le braccia di tuo fratello è una ben triste cosa, anche se almeno sei morta guardando gli occhi di chi ti voleva bene davvero, e non come una cosa posseduta. Che il tuo sacrificio non sia vano Martina, e che le donne possano imparare ad andar via al penultimo appuntamento.
(Nel riquadro di copertina, Martina Scialdone, 35 anni, avvocata, uccisa all’uscita di un ristorante a Roma da Costantino Bonaiuti, l’uomo con cui ha avuto una relazione. Dopo l’arresto del 61enne, per lui il gip ha disposto il carcere)
Simonetta Molinaro, 19 gennaio 2023