StatoDonna, 5 gennaio 2023. Arriva domani la Befana. Stanotte, per la precisione. L’Epifania, a mostrare il Bambino ai Magi e al mondo, quella luce di cui ciascuno sente la necessità, quella stella che abbiamo bisogno di seguire per sapere dove andare. Per sentire che quello è il nostro destino, e cioè realizzare quello per cui siamo qui. Per vivere come desideriamo, con la consapevolezza di quanto siamo distanti da quelle stelle che guardiamo affascinati. Per capire se quello che viviamo lo apprezziamo come un dono ricevuto, che però di giorno in giorno trasformiamo in estensioni di noi, plasmandone le caratteristiche, aggiungendo particolari, sottraendo imperfezioni, moltiplicando ispirazioni, dividendo in metameri, pezzetti tutti uguali da diffondere nel mondo, che riproducano i nostri pensieri, le nostre aspirazioni, le nostre paure, le nostre passioni.
Perché ciascuno di noi ha un compito, e sono tutti dignitosi e non esistono gare o classifiche. E la vera cosa che conta è come riusciamo a svolgere quello che un po’ ci tocca in sorte un po’ scegliamo di realizzare, anche guardando quello che non abbiamo ma che vorremmo, quello che sentiamo farci bene o ci fa essere migliori. Quello che vorremmo insegnare ai nostri figli, o lasciare loro come eredità.
Sapere che le stelle sono lì, luminose come la ragione e nessuno dovrà mai credere che le une escludano l’altra. Che nei cuori c’è posto per entrambe queste luci se si ha la capacità di vedere oltre certi orizzonti troppo vicini, necessari ma non sufficienti. Se si guarda il tutto e i singoli elementi abbracciandoli per unirli. Se la vita diventa una sequenza di parti per il tutto, dove “per” non è solo un assemblaggio, ma è anche finalistico, cioè dove le parti, seppure differenti o apparentemente tali, hanno lo stesso obiettivo. Che è proprio di ciascuno. E ciascuno sa.
E aspetteremo la Befana stanotte, con un bicchiere di latte e dei biscotti, attendendo che arrivi con il suo carico di carbone e dolciumi, e li leggeremo non come giudizi ma come presa di coscienza, come consapevolezza di quanto potevamo fare e non abbiamo fatto. O di quanto siamo stati bravi e ce la meritiamo tutta questa cioccolata. O di quanto abbiamo sofferto per qualche schiaffo preso, che mica sempre abbiamo il coltello dalla parte del manico. Di quanto ci siamo arrabbiati per quell’ingiustizia subita. O per quel torto che abbiamo fatto. Per quell’idea che ci hanno rubata. O di quando abbiamo potuto solo guardare certi dolori, impotenti nell’intervenire e capaci solo di offrire una spalla cui appoggiarsi.
Come a Grazia, che vorrebbe andare a vivere col suo fidanzato lontano, ma assiste i suoi genitori diventati anziani e prepotenti, che senza di lei non vanno neanche in bagno perché si sono adagiati e la tengono prigioniera nel loro egoismo e nei suoi sensi di colpa, che si insinuano tra le pieghe di un’insicurezza antica. Carbone per loro, cioccolata mista a carbone per lei, che dovrà un giorno decidersi a chiudere quella porta e partire leggera.
O a Giulia, che ha un figlio borderline il quale vuole vivere da solo e lei adesso è disposta anche a lasciare il lavoro per cercare di aiutarlo a realizzare questo desiderio. Carbone per lui che, al di là della malattia, non manifesta nessun desiderio di indipendenza e affermazione di sé in maniera concreta. Carbone e cioccolata per lei che lo vuole aiutare ma alle sue condizioni, e la cioccolata è perché è una madre disperata, e le madri disperate meritano sempre un po’ di indulgenza.
Poi ci sono quelli che ti fanno arrabbiare, come il direttore di banca che dà di gomito alla funzionaria che ti sta proponendo le condizioni per il nuovo conto corrente e forse è troppo di manica larga secondo i suoi parametri, e la zittisce in questo modo, ma tu porti gli occhiali e vedi bene. Carbone, solo carbone per lui. Cioccolata per lei, gentile e carina. E l’augurio di fare carriera presto.
E solo cioccolata a Justina. Che diventata maggiorenne ha trovato un lavoro ed è andata via di casa, lasciandosi dietro le botte, le minacce e le tirate di capelli. E tutte le volte che ha dovuto alzarsi alle tre di notte per preparare da mangiare al padre quando si ritirava ubriaco dopo ore di bagordi. E l’ho incontrata la notte di Capodanno, per caso sotto a quegli orribili e tossici fuochi di artificio. Bellissima ma con lo sguardo triste. Mi ha abbracciata in silenzio. “Sto bene ora prof” e io non ho saputo rispondere.
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