StatoDonna, 18 dicembre 2022. Mercoledì era il giorno del mercato. Arrivava presto, e andava diretto al bar. A fare colazione, che poi era già almeno la seconda, perché si alzava prestissimo per venire in paese e prima doveva controllare la terra, e le piante, e rigovernare gli animali e poi darsi una sistemata, prima di mettersi in macchina e partire. Neanche lo diceva alla madre. Si parlavano il minimo indispensabile. Lei, mezza invalida, seduta su una panca in muratura di fianco alla porta d’ingresso controllava tutto e parlava da sola perché Giacomo non l’ascoltava neanche.
E il mercoledì lei faceva apposta a trovargli cose da fare, per rimandare l’unico momento della settimana in cui lui riusciva a star solo, senza qualcuno a parlargli addosso e contro. Ma poi lui lo aveva capito presto, il giochino, e partiva sgommando e alzando una gran polvere, che lo vedesse bene andar via. E poi, al bar, dove lo sapevano che il caffè glielo dovevano servire corretto, si sedeva in fondo, con il giornale e un cornetto alla crema, davanti alla finestra con i gerani che sembravano dei soldatini, orgogliosi e in fila dietro al loro comandante.
E li guardava ma non li vedeva. Odiava i fiori e i frutti e la terra e gli alberi. Odiava il posto dove abitava, odiava quel sentiero sterrato con pretese da strada che parte dalla provinciale e scende verso casa sua. E da lontano sembra vicino, ma invece non lo è e bisognerebbe moderare la velocità perché ci sono i caprioli che saltano da una parte all’altra ma a lui non interessava, non gli interessava di niente. Anzi correva come un dannato.
La prima volta che sono andata lì a portare delle medicine, mi aveva colpita la desolazione e mi era venuta in mente la Rina, con la sua casa tanto simile, ma tanto diversa. Qui niente odore di cose buone cucinate con amore. Niente fiori colorati piantati nei secchi di zinco e nemmeno nei catini di latta, bianchi e con la righina blu, antichi, che poi ne avevo scovati un sacco originali aux puces, a Parigi, e me li volevo portare tutti, ma ero in aereo e ci avevo dovuto ripensare. E ogni tanto ne ho trovato uno ai mercatini dell’antiquariato qui, con qualche pezzetto sbreccato, e un po’ di ruggine a testimoniare il tempo trascorso. E li compro quando li trovo e li uso per lavare a mano le cose delicate, come faceva la Rina, oppure ci pianto fiori che inevitabilmente muoiono e qualche piantina aromatica e un po’ di erba gatta.
Quella invece era una casa orribile e Giacomo la odiava anche se ci era costretto a vivere perché non avrebbe saputo dove andare. Odiava quei campi che doveva coltivare da solo perché non poteva pagare un operaio. Odiava quel monte che al pomeriggio si finge di essere un pezzo di Dolomiti, e si colora di rosso con certi tramonti che alcuni miei amici si sono anche fidanzati grazie alle foto che mando in giro a raffica, il pomeriggio. Odiava quel posto in mezzo al niente, dove davvero non incontri nessuno e dove quando nevica vuoi morire.
L’ultima volta, che eravamo in tutti i telegiornali e ci facevano le interviste, la Protezione Civile aveva dovuto aprire la rotta con un trattorino e prima gli aveva dovuto portare da mangiare con uno dei gatti delle nevi che ci aveva prestato il Trentino, che oggi magari lo farebbero con i droni, ma prima ancora non ne parlavamo. E il giorno dopo erano tornati perché gli servivano le medicine ed erano venuti da me. Mi aveva telefonato, in crisi. Non aveva da bere. “Mettimi qualcosa nella busta.” Esasperare non aveva senso in quel momento, così “qualcosa” furono tre bottigliette mignon di liquore al caffè, che una volta viste mi avrebbe insultata, ma più di così non potevo.
Perché Giacomo beveva tutte le sere e io lo sapevo bene e avevamo anche parlato di seguire un percorso. Il mercoledì alle undici, mi aspettava al bar. Per me il caffè amaro e bollente, con una spruzzata di cacao, per lui il caffè “rosso” che la prima volta non avevo capito e me lo aveva dovuto spiegare. E rideva e mi diceva “E’ il tuo fascino. Queste scivolate sono il tuo fascino” che non ho mai voluto indagare, ma non mi sembrava troppo un’offesa e così non insistevo.
Mi raccontava pochissimo di lui. Parlava dei suoi amici, tutti tra Torino e Milano, partiti per far fortuna e lui li odiava perché non erano quasi più tornati. Parlava delle donne di cui si era innamorato, ma con cui non era riuscito a costruire mai nulla. Parlava dei figli che non aveva avuto e di quanto gli sarebbe piaciuto, ma forse era meglio così alla fine, “Perché, disse una volta, avrei avuto molta paura.”
E avevo intuito. Ne fui certa quando morì la mamma e lui cominciò a venire in farmacia tutti i giorni, e si vedeva che stava male. Meno di quando decise di raccontarmi della violenza subìta. Delle botte, degli insulti e degli abusi. Di quelle volte che disperato scappava di casa, ma era troppo dolorante per andare lontano e la sera tornava perché era solo un bambino spaventato e aveva fame ed era stanco ma il padre riprendeva da dove si era interrotto e la madre si sedeva di fuori, sulla panca, e aspettava che il marito si addormentasse vinto dall’alcool. Poi rientrava e andava a dormire anche lei.
Potevo toccare l’odio di Giacomo e il suo dolore e non avevo parole per consolarlo. E non le aveva trovate neanche don Matteo, che rifuggiva da frasi fatte e retoriche immerse nella santità. E lo ha portato in una comunità dove ci sono bambini pieni di dolore e odio, perché anche lui lo è. E seguono percorsi difficili e lunghi. Molti ce la fanno e diventano uomini migliori di quelli che hanno conosciuto. E io, per Giacomo, incrocio le dita e prego.
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