Adriano aveva tanti sogni ed erano molto diversi da quelli dei fratelli

Stato Donna, 11 dicembre 2022. Era il sesto di otto figli. Per me, che mio padre aveva quattro fratelli e mi era sempre sembrato un numero enorme e mi piaceva e mi piace avere tanti zii e tutti in una volta, otto non lo riuscivo a concretizzare. Avevo nove anni e lui dieci quando ci siamo conosciuti, il posto sempre quel luogo incantato dove trascorrevo le vacanze estive e il Natale. Lui abitava al primo piano, e io al piano terra, di fronte a quella chiesetta bianca e rossa che sembra uscita da un libro di fiabe. Pioveva quel giorno e io, come sempre quando non si poteva uscire, ero seduta sul davanzale della finestra con le imposte spalancate, ed un libro, la mia passione. Lui, seduto sulla sua finestra, al piano di sopra, cantava Yuppi du. Mi sporsi, per vedere chi fosse e riconobbi quel ragazzino che avevo visto passare spesso, in quei giorni, ma che non conoscevo perché d’estate negli anni precedenti, quando finiva la scuola, con la famiglia lui andava su, negli alpeggi, con le mucche che in inverno erano nelle stalle.

Per quello non ci eravamo mai visti. Da quell’anno, invece, avrebbero fatto un po’ a turno, un mese per uno. Gli altri anni partivano tutti insieme a giugno e tornavano a settembre, che le scuole iniziavano ancora il primo di ottobre, e c’era il tempo per organizzarsi, per comprare i libri, e i quaderni nuovi, e lui ci teneva tanto. Gli piaceva andare a comprare il materiale nuovo. Le penne, le matite colorate e quelle scure, con le mine morbide per disegnare su quei bei blocchi di carta ruvida. Ci andava con la mamma, che era orgogliosa da morire di quel suo figliolo, che non perdeva il sorriso mai, neanche quando, in certe sere buie, il padre tornava strisciando sui gomiti per quanto era ubriaco e siccome era un omone, in tre lo dovevano mettere a letto, vestito. E in quelle sere, dopo, Adriano si sedeva accanto alla mamma, davanti alla stufa in cucina, e le chiedeva di raccontargli una storia.

E una volta era la leggenda di re Laurino, e poi quella della figlia della luna, una volta racconti di quando lei era una giovane ragazza, con tanta voglia di vivere e di ballare, una volta ancora ricordi di quando lui e i suoi fratelli erano piccoli e lei non se ne era neanche accorta che ne aveva fatti otto di figli, che erano arrivati così, uno dopo l’altro e poi la gente in paese era anche un po’ cattiva e insinuava che non fossero nemmeno tutti figli dello stesso padre, ma a lei non interessava, era più ferita dal tempo che trascorreva implacabile e l’aveva fatta ritrovare improvvisamente vecchia, con i capelli bianchi e il corpo sicuramente sano e forte di chi nella vita aveva lavorato tanto, all’aria aperta, e senza risparmiarsi, ma che ora era stanco e provato, anche. Nel frattempo, aveva smesso di piovere e lui era sceso, e ci andammo a sedere sulle scale, davanti alla chiesetta e, in un pomeriggio, diventammo amici. Il mio primo amico.

Mia madre, che ci guardava da quella stessa finestra, ci aveva preparato la cioccolata calda con i biscotti ed entrammo e quella fu la prima di una serie infinita di volte in cui la cioccolata avrebbe consolato pomeriggi di pioggia ininterrotta, e accompagnato confidenze e sogni di bambini prima e di ragazzi poi. Perché Adriano ne aveva un sacco, di sogni. Che si vergognava a raccontare perché erano diversi da quelli dei suoi fratelli. Lui non voleva continuare ad occuparsi degli animali, e del fieno, e del latte e dei formaggi. Lo diceva a me e a Paola, in quelle sere di agosto in cui, seduti sul dondolo del mio terrazzo, aspettavamo che gli altri amici tornassero a casa per parlare delle nostre cose. E durante le vacanze di Natale, quando io tornavo su, e certi giorni nevicava troppo per andare a sciare e allora andavamo a casa di Paola, a fianco della chiesetta, e stavamo lì, seduti tutti e tre intorno al tavolo di legno della cucina, con la tovaglia con i cuoricini rossi, rossi come diventavano i nostri visi dopo ore davanti al camino, a chiacchierare e a ridere. A noi lo diceva che voleva cantare. E lo faceva, dalla mattina alla sera. E nessuno, genitori e fratelli, aveva il coraggio di contraddirlo, di dirgli che era un sogno impossibile, perché doveva lavorare e dire grazie se finiva le scuole medie.

Nessuno gli diceva niente perché era troppo caro, e perché tutto in lui era bellezza. Di quella bellezza pura e maestosa, vera, che in pochi hanno, e che nasce da dentro. Senza retorica emanava una luce che andava oltre sembianze delicate e modi gentili. Di lui ammiravo la capacità di guardare oltre quella che a me pareva essere la tristezza della sua vita, e che ora mi dispiace tanto aver giudicato, seppure con occhi di bambina. Mi colpiva la poesia con la quale raccontava quello che faceva, ammantando di meraviglia i sacrifici e le rinunce, e amavo la semplicità della verità che non si voleva dipingere più bella, ma che usava la fantasia per vivere meglio, descrivendo scenari che non erano mai stati e che, purtroppo, non sarebbero stati mai. Ma nessuno poteva saperlo.

Perché se ne è andato molto presto, Adriano, durante la primavera dei suoi quindici anni. E se ne è andato senza dare fastidio, come era lui. Un errore fatale mentre lavorava, un colpo sulla nuca. Un gran mal di testa e il medico che dice “Prendi una camomilla e vai a dormire” E ha fatto così, anche se stava male, ma nessuno lo ha accompagnato in ospedale, che quando Paola me l’ha raccontato, volevo gridare. È  andato a dormire, e non si è più svegliato e ora riposa in quel cimitero piccolo ed ordinato, con le croci di legno, e i fiori piantati nella terra, e io ci sono andata una volta soltanto perché volevo vederlo, e non sono riuscita a tornarci mai. E nemmeno ho più guardato su, verso quella finestra.  E con Paola, di lui, non parliamo mai.

Simonetta Molinaro, 11 dicembre 2022

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