La valigia “senza spago” dei giovani che emigrano oggi

Stato Donna, 8 dicembre 2022. Ogni giorno percorro circa una ventina di chilometri in auto per raggiungere la mia sede di lavoro e per rendere il mio viaggio piacevole ascolto la radio. “E il treno io l’ho preso e ho fatto bene. Spago sulla mia valigia non ce n’era, solo un po’ d’amore la teneva insieme, solo un po’ di rancore la teneva insieme” dice Francesco De Gregori nella sua “Pablo” su una storia di vita vissuta del protagonista narrante e del suo amico Pablo. Storia di un emigrante che ha lasciato i propri affetti nella sua terra di origine per trovar fortuna altrove. È una canzone che cerca di sensibilizzare gli ascoltatori sul tema dei morti sul lavoro; racconta, infatti, la storia di un immigrato spagnolo in Svizzera che viene “ammazzato” anche dall’indifferenza della società.

In realtà, la canzone mi ha fatto pensare all’emigrazione come condizione di tanti, non solo lavoratori; di tanti giovani che vanno via per studiare e per trovare lavoro in altre regioni; vanno via dal sud per studiare al nord, ma poi ci restano per lavorare o dopo gli studi vanno in altri Paesi. Come dargli torto? Nel nostro Paese non funziona più “l’ascensore sociale” di cui si sentiva parlare tra gli anni sessanta e settanta. L’immagine dell’ascensore, che sale e che scende da un piano all’altro, veniva paragonata alla possibilità di raggiungere uno stato sociale più elevato rispetto a quello di provenienza grazie all’istruzione o attraverso il lavoro.

Un tempo i ragazzi, non solo del sud Italia, non avendo molte possibilità di trovare lavoro, prendevano la valigia, spesso di cartone, chiusa con un filo di spago, e partivano per il nord Italia o paesi del nord Europa o ancora più lontano in America. Con il boom economico degli anni sessanta cominciò ad esserci più lavoro, sia per chi aveva solo competenze manuali sia per chi aveva un titolo di studio superiore. La laurea, poi, offriva le opportunità di lavoro più prestigiose sia da un punto di vista reddituale che sociale. Non tutte le famiglie potevano sostenere i costi dell’istruzione superiore e universitaria ma per i ragazzi più bravi, attraverso il sostegno di borse di studio o grandi sacrifici, si faceva il possibile per dare un’opportunità di vita migliore.

L’ascensore sociale funzionava davvero, nella situazione attuale non funziona più. Nelle generazioni passate si poteva passare da un ceto all’altro, nelle generazioni attuali manca il gradino successivo per salire al piano superiore e fare il salto di qualità. Eppure l’istruzione superiore è diventata più accessibile a tutti, le Università sono più diffuse sul territorio nazionale ed è più facile prendere una laurea in sedi vicine alla propria residenza rispetto a venti/trenta anni fa quando si trovavano solo nelle grandi città. Una volta preso un diploma di scuola superiore o la laurea, anche con voti eccellenti, non si trova lavoro.  Perché?

Le motivazioni possono essere tante ed alcune conosciute: una cattiva scelta del tipo di scuola superiore da frequentare, spesso condizionata dal grado di istruzione dei genitori, con conseguente abbandono scolastico, una facoltà universitaria con poche opportunità di accesso al lavoro; le assunzioni clientelari, la cosiddetta “raccomandazione” per pochi eletti.

Qualunque sia la causa della difficoltà di trovare lavoro a “casa” propria, si va via con rancore per alcuni o con amore per altri, sperando di migliorare la propria vita.

Il problema dell’emigrazione giovanile si riflette anche sulle scelte politiche del nostro paese, perché le ragazze e i ragazzi che vanno via non votano. Pur volendo, non possono farlo. Non esiste una legge che permetta ai giovani fuori sede, per studio o per lavoro, di votare nel luogo di domicilio.  Tutto questo si riflette anche sulle scelte politiche, che non tengono in considerazione le esigenze di tanti che vanno via con una valigia, non più di cartone, tenuta da uno spago.

Maria Laura De Lucia, 8 dicembre 2022

 

 

Redazione

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