Stato Donna, 8 dicembre 2022. Dove abitavo prima, a Manduria, il sette dicembre era vigilia. Si osservava il digiuno dell’Immacolata, che esiste da quando nel 1854 Papa Pio IX promulgò il dogma dell’Immacolata Concezione di Maria Vergine suggerendo la pratica del digiuno da osservare proprio il 7 dicembre.
Io sono foggiana e per me il digiuno è quello del 24 dicembre, giorno in cui l’odore delle pettole invade la città, arrivando prima di tutto dalle case dove mamme e nonne friggono dall’alba, perché sia chiaro che le pettole, fatte di pasta di pizza e fritte fino a dorarle e a renderle croccanti fuori ma con un cuore tenero, vanno condivise.
Con i vicini di casa, con i quali si scambiano ricette magari con qualche piccola differenza di dosi o con forme diverse: una più lunga, una più schiacciata, una più rotondeggiante, e poi con i parenti e gli amici che arrivano in visita e vanno via con il cartoccio tutto unto pieno di palline profumate, lasciando quello che loro stessi hanno portato. Pieno di pettole, naturalmente. E poi verso mezzogiorno spuntano quei pomodorini rossi come solo noi ce li abbiamo, che diventano un sughetto da accompagnare con le acciughe, perché si sa, l’uomo non vive di solo pane, e nemmeno di sole pettole.
Ma da qualche anno il rito della frittura si è trasferito anche nelle strade, nei bar, e nemmeno quelli più chic, più belli ed eleganti si sottraggono, e distribuiscono cartoccetti di carta da forno da cui fanno capolino le regine della festa. E tutti con le bocche piene e le dita unte a dire “so’ mmegghije quill d’ mammà”. Mammà. Mia madre, significa. A Manduria invece ieri si mangiavano panini con il tonno e con il formaggio, le olive, i lamponi soffritti con l’alloro e le rape affogate, che si preparano mettendole in una casseruola con molto olio, pochissimo sale e uno spicchio di aglio. Si schiacciano con un coperchio più piccolo magari mettendoci sopra anche un peso, volendo, e si fanno cuocere a fuoco basso, nell’acqua che da sole tireranno fuori. E poi il baccalà fritto e in umido. E naturalmente le pettole. Piccole e perfettamente tonde, “pittule” le chiamano. Certo, un digiuno sui generis.
Ma forse non siamo più fatti per questo. A meno che non sia necessario, per salute o perché facciamo fatica a mettere un piatto a tavola. E così, il profumo che si dipana tra le viuzze arrotolate del centro storico, che passano davanti alla Chiesa Madre per poi arrivare davanti al Ghetto degli Ebrei oppure davanti alla Torre dell’Orologio su quelle chianche bianche e irregolari dove i tacchi si incastrano e anche le ruote delle biciclette e bisogna andare piano e questo ti permette di vedere quanto è bella, quel profumo è un po’ amaro, per tutti.
Adesso poi, che ieri sera hanno acceso le luci di Natale e lì sono maestri per le luminarie, e ogni festa è pretesto per allestire luci e casse armoniche, qualcosa stride, lo so. Stride a Manduria, stride a Foggia, stride qui a Rimini dove il Ponte di Tiberio illuminato è una meraviglia. E forse questo digiuno che non abbiamo fatto potrebbe essere un momento di solidarietà, proprio dove l’etimologia della parola richiama alla concretezza, al solido. Non alla pietà da social e nemmeno alla beneficenza da ricche dame.
La compassione, anche qui etimologicamente considerata, con la comunanza di dolore a far comprendere la sofferenza quella vera. Quella di una madre che deve fare i conti con spese che non riesce a sostenere, di padri che si sentono inadeguati, di figli che vedono genitori spezzarsi la schiena. La fragilità non conosce calendari o ricorrenze e la fame vera non è digiuno. Ma ha lo stesso carico di dolore, di sacrificio, di speranza sopita ma non perduta, e poi di affanno, di rabbia, di fatica. Anche in questi giorni, di più in questi giorni. Perché il Natale è di tutti.
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