Con Silvia ci raccontavamo gioie e dolori, lei costruiva mappe contro l’oblio

Stato Donna, 4 dicembre 2022. Ci siamo conosciute perché i nostri figli erano compagni di classe e poiché Whatsapp ancora non ospitava le chat delle mamme, che per fortuna almeno quelle ce le siamo risparmiate, al mattino ci si trovava fuori da scuola per tutte le comunicazioni necessarie. Lei non c’era mai e il padre della bambina la lanciava in corsa dalla macchina, schivando i vigili che a quell’ora transennavano la strada per sicurezza, ma a lui questo pensiero non è mai stato molto chiaro. Così a lei le cose le raccontava la figlia, come poteva una bambina di otto anni.

A volte le scrivevo io stessa, come rappresentante di classe, sul diario le comunicazioni e una volta per dei documenti che servivano urgentemente le lasciai il numero del mio cellulare, quando ancora lo si considerava un numero privato, da rivelare con parsimonia e senza bisogno del registro delle opposizioni. Mi chiamò e mi fu chiaro perché non ci fosse mai. Quando fai la chef in un ristorante stellato a settanta chilometri da casa e finisci alle due di notte di lavorare e poi ti metti in macchina per tornare, sei già molto brava se alle sette sei in piedi per preparare la colazione alla piccola e salutare al volo quello grande che studia all’Università e che non va a vivere fuori per stare la notte con la sorellina. Lei tornava a dormire fino alle nove, quando il crocicchio delle mamme si era già sciolto, e iniziava la sua giornata vera, organizzata al minuto.

Il marito era un ex marito e si volevano bene, ma da lontano e per amore dei figli, e quando passava alle otto meno un quarto a prendere la bambina si salutavano dalla finestra e andava bene così. Perché i vicini ancora se le ricordavano le liti feroci per colpa dei tradimenti sfacciati di lui che negava anche davanti all’evidenza e provava addirittura a scherzarci su. Fino a che un giorno, prima di partire per andare a lavorare, Silvia gli ha chiesto di andar via. Di cercare una casa lì vicino, ma di andar via. Senza gridare, senza recriminare. Andar via e basta. Spiegazioni poche e chiare solo ai ragazzi, niente fango, ricatti, dispetti.

E lui accettò, probabilmente troppo preso da se stesso e forse anche grato di poter vivere come gli piaceva, finalmente. Responsabilità diminuite e tempo per le sue cose. Più tranquillità per tutti. Comunque sia, ci piacemmo. Lei, troppo indipendente per essere ammirata da tutti e io, straniera in quella terra così piena di chiese e perbenismo, unimmo certe solitudini profonde e ci inventammo, il martedì suo giorno di riposo, a pranzo un rito tutto nostro di cui non mettemmo mai a parte nessuno, se non i bambini che prendeva lei da scuola e Archimede che ci regalava il vino. Passavo e me lo faceva trovare, bianco fresco e profumato. Da donne, diceva ridendo.

E poi andavo a casa sua che era tutta colorata e piena di cuscini e, sedute a piedi nudi sul tappeto davanti ad un tavolino basso fatto di legni che il mare aveva restituito, mangiavamo con le mani le cozze che lei sgusciava e friggeva una ad una, finger food ante litteram, e poi le bruschette fatte con il pane che portava a casa dal ristorante e che arrivava da Laterza, con quella crosta nera che a pensarci oggi mi viene male, ma me lo sogno ancora. E certe mozzarelline piccole piccole che una masseria produceva apposta per loro, insieme ai lampascioni sott’olio, che nessuno può dire di essere stato veramente in Puglia se non li ha assaggiati, e quando ti chiedono di che sanno non sai rispondere, e nemmeno sai spiegare esattamente cosa siano, perché il concetto di bene unico non sai se si possa riferire anche ai lampascioni, ma lo sospetti fortemente.

E ci raccontavamo le cose della nostra vita, quelle belle, quelle meno e quelle no. Le ansie e le paure. E capii perché non ci aveva mai pensato a trasferirsi dove lavorava, oltre al desiderio di non sradicare i figli. Quel tempo in macchina, andata e ritorno, a costeggiare mare e ulivi percorrendo stradine bianche ed interne sconosciute a chi non è nato lì, con la musica in sottofondo era un momento tutto suo che le serviva per riflettere, decidere, pianificare.

Aveva, e ha ancora, l’abitudine di raccontare sempre episodi collegandoli a piccoli particolari visivi od olfattivi o di gusto, tipo “quel giorno avevi le scarpe rosse” oppure “avevamo mangiato i mandarini piccoli dell’avvocato” e finalmente capii perché. Nonna materna e mamma con Alzheimer precoce, si sentiva condannata ad ammalarsi anche lei, prima o poi. Per questo aveva escogitato questa personale strategia che avrebbe dovuto aiutarla a non dimenticare, o forse a cercare di ricordare. Di ricostruire cose, eventi, visi. Parlava con dolore delle conversazioni con sua nonna prima e con sua madre poi. Di pensieri che inseguivano parole che esprimevano pensieri che non trovavano più parole. E di quel non sentirsi, come di non esserci pur essendoci e di come lei voleva fare di tutto per ritardare quella sensazione.

Perché questo avrebbe dato una speranza anche alla sua, di figlia, e cioè che la malattia non fosse inevitabile. Voleva lasciare una scia di profumi, sapori, colori, canzoni cantate insieme a squarciagola che servissero come mappa, per ritrovarsi se mai si fossero perduti. Per riconoscersi un giorno se fosse possibile dimenticarsi di chi, con tanta cura, annoda continuamente sottili resistenti fili, trama e ordito che parlano di un amore generoso e comunque presente.

Simonetta Molinaro, 4 dicembre 2022

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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