Irene Cara simbolo anni ’80 quando a Foggia impazzavano i giardinetti

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Stato Donna, 1 dicembre 2022. Che poi cadere nella nostalgia è un attimo e di solito avviene per caso. Ad esempio perché senti una notizia alla radio, mentre guidi su una strada che sembra un’autostrada senza esserlo. Invece qualcuno dice che è mancata Irene Cara, la cantante che all’inizio scambiavamo per Jennifer Beals in Flashdance, ma Alex era “solo” la ballerina, quella che faceva il provino sotto la pioggia e noi con lei. Con quella musica che ti travolgeva e ti faceva battere i piedi forte a terra. Ma non era sua la voce. A cantare era lei, la Coco di Saranno famosi, il film che poi diventò una serie anche se lei non c’era. Ma quella voce…

E in un secondo hai 14 anni e balli sempre, dalla mattina alla sera. E cammini sulle punte anche quando non calzi le scarpette di raso rosa e gesso e tutto è musica. E sei nella casa dove sei cresciuta, al settimo piano e dalla tua camera vedi a destra il Gargano e a sinistra i Monti della Daunia. E la notte d’estate senti il rumore dei treni che arrivano in stazione e prima fischiano gentili per avvisare, e in inverno invece il vento che soffia forte. Ma quello tira sempre a Foggia ed è la cosa che più ti manca di tutti i posti dove vai.

L’aria ferma la soffri. Perché tutto sembra immobile, senza suoni che arrivano da lontano e profumi che ti ricordano cibi e momenti e persone. E quello che è immobile ti preoccupa, non è nella natura delle cose che hai studiato. Tutto scorre, sempre. Ma scorrere non vuol mica dire sparire. I ricordi, ad esempio. Le domeniche. Quelle che la mattina andavi a Messa in Cattedrale calpestando le pietre lisce del centro storico, percorrendo strade strette e mai diritte, che oggi paiono metafore di tante scelte compiute che per qualcuno potevano sembrare scorciatoie, e invece la strada percorsa era anche più lunga, perché certe volte nulla è come sembra. Quelle stradine quasi ripiegate su se stesse che si aprivano su piccole chiese sconsacrate e dai nomi inquietanti.

Flashdance, il film

E poi seguivi da lontano il campanile, alto e imponente, un piccolo faro che guida i fedeli ma anche le persone che camminano senza cercare niente, che poi tutti cerchiamo qualcosa. Risposte, segni, segnali. Ma a quattordici anni non lo sai che cercherai tutta la vita, anche quando le risposte le troverai o crederai di averle trovate.

E poi dopo la Messa, il caffè sul Corso che non era ancora isola pedonale e i bar non erano così tanti come oggi. Erano quelli famosi, quelli storici, un po’ antichi come certi pezzi della città, quelli più belli. Quelli dove c’erano i locali della notte quando ancora non si chiamava la movida e nessuno si lamentava. Quando prima si andava ai Giardini che gli anziani e chi non li frequentava li chiamava “i giardinetti” con questo vezzeggiativo del tutto irrealistico, considerato che era una delle principali piazze di spaccio, ma io in tanti anni non ho mai visto nulla e nessuno mi ha mai offerto qualcosa.

Foggia, giardinetti anni 80

Eravamo divisi per settori. Noi del Classico sulle scale della scuola, con quei cancelli enormi che di giorno custodiva Napoleone e di sera erano solo nostri. Ma ai giardini c’eravamo tutti. Tutte le scuole. E se cercavi qualcuno bastava cercare, che prima o poi sicuro lo trovavi. E poi gli appostamenti per vedere se “quello” passava, e con chi era, disgraziato. E gli inseguimenti con il motorino, che nemmeno i teppisti. Con mia madre che ci correva dietro con le giacche a vento, una per me e una per Thea, sorella del cuore, che facevamo finta di metterla e dietro l’angolo ce la toglievamo.

E poi tornavi a casa e ti accoglieva l’odore delle braciole che solo là le fanno così, con i pinoli, l’uvetta e il prezzemolo e il sugo e cuocevano centomila ore e non era domenica senza gli involtini, che la dieta poteva aspettare perché il pane di Monte invece no. E poi ad un certo punto capisci che la nostalgia non è tanto per quegli anni, ma per i luoghi e le persone. Perché Irene Cara è un simbolo per noi che oggi abbiamo cinquant’anni.

Di quando eravamo giovani, certo, ma soprattutto di quando abbiamo iniziato a sognare di più, in maniera più consapevole. Perché iniziavamo a guardare avanti, non eravamo più bambini e ciascuno a modo proprio si cresceva. C’era chi suonava, chi studiava, chi chiacchierava, chi leggeva, chi rideva, chi non faceva niente. E non è detto che poi le cose siano andate in quelle stesse direzioni, e sognare lo facevamo tutti anche senza saperlo.

E la nostalgia la sentiamo perché adesso sognare è più difficile, ma è un impegno che abbiamo preso con i noi stessi di quarant’anni fa, quando i fuochi erano tanti e nessuno li poteva spegnere, perché era così che concepivamo la vita, piena di passione per le cose che volevamo vivere e per le persone che abbiamo sperato di incontrare.  Ce lo dobbiamo, di continuare a cercare risposte, segni, segnali. E di tornare a sognare anche quei sogni che ci hanno feriti, abbandonati, traditi, cercando di capire se non siamo stati noi a smettere di inseguirli.

E scegliere di ricominciare, se abbiamo smesso pensando che fossero cose da ragazzi e li abbiamo rimossi, conservati ma non nei cassetti, che prima o poi qualcuno te lo potrebbe chiedere di tirarli fuori, e magari sei costretto a riprenderli. No, li hai nascosti bene, in posti che hai dimenticato pure tu e di certi sogni rimane solo un riflesso, un bagliore, un rumore di fondo che però è proprio quello che te li farà ritrovare.  E magari ti faranno tenerezza perché sei un’altra persona ma nessun sogno è inutile se ci ha permesso di sognare.

Simonetta Molinaro, 1 dicembre 2022