Al Lanza di Foggia ‘La casa di Paolo’, una storia per i giovani e per il futuro
Stato Donna, 28 novembre 2022. 14 omicidi in tutta la provincia di Foggia dall’inizio dell’anno, uno, il quindicesimo, successo da poche ore, ha i contorni del movente passionale, ma comunque vede coinvolti un minorenne ed un giovanissimo di 21 anni freddato con una calibro 22. Una città buia, stanca e armata, Foggia, in cui promuovere cultura è compito delle scuole e di pochi altri strambi, ancora convinti che un’opera teatrale, un film, un libro hanno un senso forte.
Una città che non si lascia intimorire, che si ostina nel cercare di mettere sotto i riflettori la bellezza di un territorio storicamente e paesaggisticamente meraviglioso. Nasce da qui la decisione della dirigente scolastica M. Coli di fare incontrare i ragazzi del liceo Classico V. Lanza con la figura di Paolo Borsellino.
Un magistrato, un uomo, ma non un eroe ci racconta il fratello Salvatore Borsellino con Marco Lillo, giornalista investigativo, direttore editoriale della Paper First, vincitore del Premio Fiori Blu 2022 con il libro “Io Posso”, scritto con Pif. Ed è proprio Lillo ad introdurre l’argomento a partire dal racconto dell’ultima giornata del magistrato, quel 19 luglio del 1992, quando all’alba decide di rispondere ad una accorata lettera inviatagli da una scolaresca di Padova.
Borsellino dedicava spesso tempo alle scuole prima dell’inasprimento del clima a Palermo, l’uccisione di Salvo Lima e poi dell’amico fraterno G. Falcone, e in quel caso specifico c’era stato un disguido cui la scuola aveva risposto inviando una lettera piccata per la mancanza di contatti ulteriori. Una lettera testamento questa, un lascito alle generazioni future, in cui il giudice racconta molto di sé, delle ragioni dei suoi studi giuridici e poi del suo ingresso in magistratura, frutto di una dedizione assoluta alla famiglia di origine, in difficoltà economiche per l’improvvisa e prematura scomparsa del padre, farmacista sì, ma in un quartiere povero di Palermo.
Salvatore Borsellino è un fiume in piena, incanta un uditorio di sedicenni ammutoliti, attoniti, attentissimi a non perdere parole o espressioni del viso (chissà dove avevano buttato i cellulari, dal palco non se ne vedeva neppure uno), al punto che, per un disguido improvviso di connessione, improvvisamente nell’aula magna ha riecheggiato una esclamazione collettiva di delusione e paura di non poter sentire ancora altro ancora.
La lettera in questione affronta tre punti, risponde a tre della decina di domande inviategli da Padova, poi una telefonata alle 7 della domenica mattina interrompe questa stesura. È una chiamata del Procuratore Capo Giammanco con la quale, dopo molte settimane di incertezze, affida a Borsellino l’incarico di indagare sulla strage di Capaci. E lo fa di domenica mattina molto presto. Ma troppo tardi. Borsellino non potrà mai ufficialmente riprendere le fila delle sue investigazioni.
Sono molte le accuse che la famiglia Borsellino muove apertamente allo Stato, quello per il quale il giudice aveva giurato fedeltà e dal quale, come diversi atti processuali hanno acclarato, è stato tradito. Molti i dettagli che ricostruiscono un quadro complessivo fatto nella migliore delle ipotesi da disattenzioni e nella peggiore dalle ormai note connivenze descritte ampiamente nelle sentenze dei diversi processi susseguitisi in questi trent’anni.
Lo sguardo rivolto ai ragazzi, la voce ferma e netta nel raccontare i dettagli dell’orrore dell’inferno di via D’Amelio, per noi una delle strade delle stragi di mafia del ‘92, per lui l’indirizzo di casa della madre presso il quale il fratello ha affrontato il suo destino scritto e noto. Borsellino sapeva di avere poco tempo e cercava di fare tutto quello che poteva non trascurando nulla, ma scegliendo di privarsi dell’abbraccio dei figli, come aveva poi raccontato la madre, per cercare di abituarli gradatamente all’ineluttabile: così quando mi uccideranno saranno pronti. Non “se mi uccideranno” ma “quando mi uccideranno”.
Aver affrontato tutto questo fa di lui un eroe? “Sventurata la terra che ha bisogno di eroi” mi risponde Salvatore Borsellino citando Brecht, guarda verso i ragazzi e con nostalgia ci racconta che suo fratello era uno di loro, uno che amava molto studiare, che aveva fatto il liceo classico su incoraggiamento della madre, pilastro culturale e morale della famiglia, che aveva inculcato nei figli l’amore per la lettura, per lo Stato, per il rispetto delle leggi.
Suona la campanella, 13.30, la mattinata scolastica è finita, ma i ragazzi stanno ancora lì in una fila lunghissima per poter intervenire e chiedere ancora di più, per non dover interrompere questo dialogo così profondo con il testimone di una parte di storia d’Italia che non si racconta quasi più. Chiedo a Marco Lillo di raccontarci della Agenda Rossa, della sparizione della borsa da lavoro del giudice, poi riapparsa in circostanze poco chiare, e del movimento omonimo che ne è conseguito. Ed ancora una volta Salvatore Borsellino ci ricorda il senso, deve essere continua la richiesta di ottenere verità e giustizia, dalla rabbia deve sgorgare la forza di domandare, l’invito rivolto ai giovani è di ribellarsi ad uno stato di cose stantio, un cambio generazionale nei luoghi di potere è auspicabile.
Ci ringrazia per aver potuto raccontare questa terribile storia familiare e nazionale, un po’ si schernisce, sa di essere un agitatore di coscienze ma sa anche che la fatica di rivivere in ogni racconto quel dolore è una opportunità per tentare di dare un senso al sacrificio del fratello che piuttosto che tornare ad occuparsi di diritto civile, la sua passione iniziale ci ricorda Marco Lillo, resta fermo al suo posto, rispettoso di uno Stato che non lo ha protett adeguatamente.
La casa di Paolo, oggi al posto della antica farmacia di famiglia, è un centro aperto a tutti e soprattutto ai giovanissimi del quartiere, la Kalsa, dove si cerca di mantenere viva la memoria di Paolo, allontanando i più fragili dalla povertà e quindi dalla criminalità, chiedendo allo Stato non fondi sussidiari ma quella Verità e quella Giustizia per l’assassinio del fratello.
L’indomani mattina in classe ho trovato i miei ragazzi, ancora emozionati, pieni di domande, sorpresi per l’essere venuti a conoscenza di tanti aspetti della vita del giudice, delle sue scelte personali e professionali, dell’amore che ha diffuso intorno a sé. Non vi nascondo che qualcuno di loro mi ha parlato con le lacrime agli occhi. Qualche studente ha inviato personalmente qualche quesito, altri li ho nella mia posta elettronica e li girerò a Salvatore Borsellino per conto degli studenti. Di questo incontro ancora respiriamo la bellezza di un confronto fittissimo e denso che ci ha fatto sentire meno soli.
Laura Maggio, 28 novembre 2022