Quel ragazzo senza soldi per studiare che non si è mai arreso
Stato Donna, 3 ottobre 2022. Andavo a fare una supplenza, e ci andavo in treno. Comodissimo perché la scuola era di fronte alla stazione e gli orari perfettamente incastrati tra l’entrata e l’uscita, talmente tanto che riuscivo a prendere un caffè all’andata, e a comprare il quotidiano al ritorno. Il viaggio durava una mezz’oretta, giusto il tempo di recuperare dieci minuti di sonno o di leggere un giornale cartaceo prima di lasciarlo sul sedile.
Una specie di “giornale sospeso” che ci siamo inventati tutto, dal caffè alla pizza passando attraverso lo shampoo, fino ai libri seminati in giro sulle panchine o sui tavolini dei bar. Ma il giornale, quello non mi risulta. Perché abbiamo la presunzione di pensare che tutti abbiano uno smartphone con un accesso veloce e quasi sempre gratuito alle informazioni, alle notizie. Eppure, io penso a certi anziani che magari comprare il giornale tutti i giorni pesa su un bilancio familiare già in sofferenza, oppure che devono scegliere se comprare un paio di panini con quei soldi. E allora, che mi costa lasciare il giornale in giro? Soprattutto visto che lo compro per il puro piacere di toccare la carta, annusare l’odore dell’inchiostro, indugiare, tornare indietro, magari con una matita in mano a fissare pensieri e parole. Il giornale sospeso, facciamolo.
E lo trovavo già seduto, alto e grande, che debordava dal sedile del regionale seppure di nuova generazione. La prima volta ero seduta dietro di lui ma nella fila parallela e così lo potevo vedere bene. Con le scarpe lucidissime a camuffare tempi migliori, perché i tacchi a guardar meglio apparivano consumati e i calzolai sono merce rara e quando li trovi certe volte conviene acquistarne un paio nuovo. Con degli improponibili fantasmini color carne a fare capolino dai bordi per evitare di rovinarne l’interno a furia di usarli. E con un fazzoletto di carta poggiato sul sedile per non sporcare l’impermeabile comprato con il primo stipendio perché quando vai in giro a procacciare clienti per l’azienda devi essere presentabile, elegante anche. Serissimo, sempre solo, con uno zaino nero e certi capelli perfetti, scolpiti nella roccia.
La carrozza sempre la stessa per entrambi, per comodità ed abitudine, insieme ad altri di cui giorno dopo giorno impari a conoscere qualcosa ma con discrezione sapendo che anche tu sei passato al vaglio. Ci si saluta con un cenno del capo facendo un rapido conteggio per vedere chi manchi, ma non si parla quasi mai perché a quell’ora del mattino ciascuno è perso dentro ai fatti suoi, diceva il poeta. E aveva ragione.
E infatti non avevamo mai parlato fino al giorno in cui mi sono caduti gli occhiali e non li trovavo perché senza non ci vedo, mi pare logico. E lui li aveva trovati, sotto ai suoi piedi, e me li aveva allungati con un sorriso gentile. Da lì a iniziare a chiacchierare è stato un attimo. Pochi anni più di mio figlio me lo facevano guardare con tenerezza perché vedevo la voglia e il tentativo di sembrare più grande, ma non per posa. Leggevo in quella serietà il desiderio di sembrare autorevole e responsabile e lavorare tanto e prendere le distanze da un mondo che non rinnegava ma non amava e ne voleva prendere le distanze. Soprattutto perché era quel mondo ad aver preso le distanze da lui nel momento esatto in cui aveva chiesto di studiare dopo le medie. Ascoltavo, nei mesi successivi, e mi sembravano cose di altri tempi e invece succedevano dietro casa mia.
Il padre e la madre, entrambi anziani, non potevano in nessun modo aiutarlo e si erano rimboccati le maniche per lavorare anche di sera, nell’unico ristorante del paese, che meno male era famoso in zona e lo è ancora, e ci andava un sacco di gente. Perché il problema non erano solo i libri e lo zaino, e i quaderni e le penne e tutto il resto, ma soprattutto il fatto che la scuola superiore fosse lontana. Lontanissima.
E quindi bisognava fare l’abbonamento del pullman e poi del treno e avere anche qualcosa da mangiare perché non riusciva mai ad arrivare a casa prima delle quattro del pomeriggio. Stanco morto. E solo, perché i suoi erano al lavoro, il primo quello ufficiale in campagna che non è proprio un lavoro leggero. Studiava e poi si preparava qualcosa da mangiare perché i suoi cenavano al ristorante e anche quello era un bell’aiuto e poi ogni tanto il titolare lo chiamava quando c’erano molte prenotazioni e lui lo sapeva che “Mirco con la c” sarebbe corso, perché i soldi di quella serata sarebbero entrati direttamente nel salvadanaio che la mamma gli aveva comprato al mercato quando aveva cominciato la scuola e gli aveva raccomandato che per cinque anni non avrebbe dovuto toccarlo se non per riempirlo e lo avrebbe dovuto aprire solo alla fine, quando avesse cominciato a lavorare.
Perché, gli aveva detto un po’ in dialetto e un po’ in italiano, cercare lavoro costa. Bisogna andare in giro, essere ben vestiti, puliti, profumati, comprare i giornali per leggere gli annunci, avere i soldi per il treno e la corriera. E si era fermata lì la signora che dentro di me immaginavo come la mamma del piccolo scrivano fiorentino, direttamente da Cuore, che magari lei non lo ha nemmeno mai letto, ma il buon senso e la saggezza non si imparano mica sui libri.
E quel salvadanaio sono diventati cinque, uno per ogni anno di scuola. Pieni di buona volontà ed impegno e sacrificio. E orgoglio. Lo stesso che poi, finita la scuola e trovato il lavoro, gli ha permesso di regalare una settimana di vacanze ai suoi. Li ha portati a Riccione, che erano anche un po’ intimoriti da questo viale così elegante, ma in fondo non c’è niente di male a rifiatare ogni tanto e a godersi la bellezza. E nell’albergo c’era la spa, ed era tutto bello e accogliente, con quella musica delicata e quel profumo, poi.
E Mirco aveva prenotato un trattamento per tutti e due e loro si facevano guidare con fiducia da quel figlio così bravo, e grato. E che non si vergognava della semplicità e nemmeno di quelle mani maltrattate che entrambi cercavano di nascondere, ma che io continuo a preferire a certe unghie a forma di lama che vedo in giro, con colori improbabili e ghirigori incomprensibili, ma il mondo è bello perché è vario, e quindi va bene così.
I salvadanai hanno pagato anche le tasse del primo anno di università e con i libri un po’ si arrangia e per fortuna che Bologna da quel lato è generosa, e ci sono certi posti che tutti gli studenti conoscono e mi fermerei qui. Il prossimo salvadanaio servirà per la macchina ma senza fretta, perché le spese sono tante e bisogna essere prudenti. Parla come i suoi genitori Mirco con la c, e mi sembra di essere in un mondo parallelo, con un sapore di antico che mi rasserena, ma in realtà lo vedo ai blocchi di partenza questo ragazzo.
Proiettato ma consapevole, concreto ma visionario, saggio ma moderno. Mai una parola contro i sacrifici che ha dovuto fare e fa insieme ai suoi genitori che hanno avuto il merito di crescerlo con questo tipo di cultura ma senza rancore o risentimento. Semplicemente avere coscienza, accettare, farsi carico, andare avanti. Comprendere che si è tutti in cammino perpetuo, anche quelli che si sentono arrivati o al contrario chi non sa come partire e che la strada non può essere sempre uguale, alle volte è in discesa altre in salita, certe poi addirittura bloccata e ce la dobbiamo aprire noi la rotta.
Che abbiamo un compito nel mondo, ciascuno il suo, e ognuno può scegliere il proprio modo di realizzarlo, e i tempi che non necessariamente sono gli stessi per tutti. A volte serve una vita, e a volte non basta nemmeno, ma si accende una fiammella che magari poi aiuterà qualcun altro ad accorgersi di una cosa che non si vede ma ne si immaginano i contorni. E anzi, magari è proprio quella la tua missione. Come i genitori di Mirco, che immaginano anche loro adesso la targa lucida con su scritto “avvocato” e poi il nome di quel loro ragazzo che non ha mai smesso di sognare in silenzio.
Simonetta Molinaro, 3 ottobre 2022