La mia amica Martina è diventata suor Benedetta e ogni tanto ci sentiamo
Stato Donna, 2 ottobre 2022. La conosco da quando avevo zero anni. Lei, un paio di anni più grande di me, figlia di un’amica di mia madre. Quando il pomeriggio si stava in casa a chiacchierare davanti ad una tazza di tè, che le tisane ancora non erano di moda, se non quella al finocchio che le signore bevevano per sgonfiarsi la sera prima di andare a dormire. Si riunivano in crocicchi le mamme, un paio di pomeriggi alla settimana in base agli impegni lavorativi quelle che non facevano le casalinghe, quando casalinga era quasi la prassi e non una cosa di cui vergognarsi come ora, che viene considerato un fallimento.
Prima le mamme erano casalinghe o insegnanti che, per definizione, avevano molto tempo libero, perché ancora non esisteva il tempo prolungato, i rientri, la programmazione, i pon, i pof, i progetti…e potevano incontrarsi e parlare di lavoro, di cucina, di mariti, di vacanze, di suocere, mentre noi bambini giocavamo correndo in quei corridoi lunghissimi che prima esistevano nelle case, quando erano grandi ancora e c’era la zona giorno divisa dalla zona notte e non esisteva l’ingresso soggiorno, ma il soggiorno possedeva una sua dignità propria ed era diverso anche dal salone, dedicato alle occasioni più formali, ai compleanni, alle feste comandate, quando cioè si era in tanti.
La cosa bella era che, tranne la camera da letto dei padroni di casa, nessun luogo ci era vietato, a prescindere dai ninnoli più o meno preziosi. Solo una delle mamme teneva il salone chiuso a chiave, ma aveva un corridoio lungo due chilometri e quindi non ci facevamo caso. Perché di solito correvamo e basta senza un vero schema, forse o forse non mi ricordo io. So solo che a fine pomeriggio eravamo tutti sudati e allora la padrona di casa ci metteva in fila, tirava fuori il phon e iniziava la liturgia dell’asciugatura, che partiva dai capelli per poi finire con l’aria bollente che scendeva sul collo e lungo la schiena prima che un etto di borotalco venisse lanciato dentro le nostre canottiere lana fuori e cotone sulla pelle, quelle rosine, per scongiurare il colpo d’aria e la conseguente broncopolmonite di cui ci minacciavano.
Eravamo bambini di città, con poco verde e pochi spazi all’aperto a disposizione e ci dovevamo accontentare ed organizzare, e per fortuna nessuno ci ha mai detto di stare fermi. E con quei bambini, oggi che abbiamo minimo cinquant’anni siamo amici su Facebook e ci mettiamo i cuori a vicenda e ci facciamo tenerezza, boomer inside, come ci dicono impietosi i nostri figli, ma che ne sanno loro. Anche a casa sua correvamo. E mangiavamo panini con la Nutella come se non ci fosse un domani, con il pan carré. Olio di palma e alcool etilico come conservante del pane, questa la nostra dieta, roba che oggi le giovani, coscienziose e sostenibili mamme non farebbero mai. Dicono.
E poi siamo cresciuti e quei pomeriggi si sono diradati lentamente, tra la scuola che diventava impegnativa e poi le attività. La danza classica, la scherma, la piscina, il karate. Ci vedevamo solo ai compleanni, ormai, e le notizie ci arrivavano dalle mamme che si sentivano e si vedevano, ma senza di noi. Fu quella la fonte attraverso la quale seppi che a quindici anni aveva annunciato alla famiglia di voler diventare suora.
E la reazione di sua madre fu di chiuderla in camera per un mese, e di ammazzarla di botte a colazione, pranzo e cena. A niente servirono gli interventi di amici e parenti che nemmeno venivano fatti entrare, e neanche il padre riuscì a contrastare la moglie. Comunque Martina, cosa poteva mai fare nella vita le dico sempre, se non la suora? Comunicò di aver cambiato idea e tornò alla sua vita normale, senza parlare più di voti, se non quelli scolastici.
Poi, quindici anni io e diciassette lei, ci incontrammo per caso in parrocchia. Entrambe ospiti, perché non le chiese del quartiere in cui ciascuna abitava, io per seguire un’amica, lei perché apprezzava quel sacerdote. Ci abbracciammo con gioia, contente di incontrarci da grandi, in quel bel gruppo di ragazzi attivi che parlavano di Gesù e della vita senza troppa retorica né fervore religioso, ma veramente con uno spirito curioso che spesso ci portava nella filosofia e in certe letture che poi ti rimangono dentro, e ciascuno poi ha scelto la propria dimensione religiosa, in libertà. E ne parliamo ancora, tra noi. Lei, che all’epoca aveva un fidanzato, brutto ma brutto veramente che certe cose ti sembrano inspiegabili, nel senso di certe unioni, ma non perché lei è bella.
L’inspiegabilità consiste nel fatto che non c’era un terreno comune, se non per il fatto che si baciavano continuamente ed era davvero imbarazzante, a volte. Lui era un maschilista di quelli passivo-aggressivi, con un sorriso che sembrava timido e invece era condiscendente e un po’ la manipolava e oggi quando ne parliamo sento nella sua voce un po’ di amarezza, ma era davvero giovane e poco consapevole. Poi lui era diventato meno condiscendente il giorno in cui era stato lasciato per Gesù.
Nel senso che alla fine veramente Martina avrebbe preso i voti. Li ha presi. E stavolta sua madre muta, rassegnata davanti ad una figlia maggiorenne e determinata che sorridendo ha fatto le valigie ed è partita alla volta di un convento piccolo e bianco. Pulito e profumato di aria e di mare, con le finestre sempre aperte dalle quali si vedeva l’Adriatico, che in quel punto è anche abbastanza limpido. E nel giardino interno fiori e piante curate con amore e competenza, come tutte le cose che fanno le suore.
E in quel giardino si sedevano il pomeriggio dopo il riposo, per parlare con le novizie, le suore più anziane. La Superiora, rassicurante e spiritosa, con un’ironia tutta napoletana che non era sparita con la vocazione. E le altre. La suora portinaia, che sapeva tutto di tutti, peggio che se fosse stata una suora parrucchiera, come le dicevano le sorelle ridendo. E poi la suora economa, che si occupava delle spese, dei conti ed era severa e anche un po’ tirchia, e le sorelle facevano la cresta e lei faceva finta di non accorgersene, perché dopotutto era una suora, e il perdono è il pane quotidiano. Poi c’era la suora cuciniera, una specie di Orietta Berti un po’ sovrappeso.
Con una bella faccia rotonda e le tasche sempre piene di dolci fatti di pasta di mandorle, morbidi e consolatori. E si portava dietro un profumo di pane caldo, che lei metteva in forno ad asciugare a temperatura bassa, per tanto tempo, che per forza la suora economa si arrabbiava e camminava per i corridoi con i soffitti altissimi proclamando “Gesù mio, perdona le nostre colpe” che le suore ridevano come matte e la Superiora diceva “Ma quando mai… e che, possiamo scomodare Gesù pe’ ‘un piezz ‘e pan? Alla bolletta ci penserà la Provvidenza, suor Giovanna non dare evidenza”.
E il pomeriggio erano lì, a parlare di religione, ma anche delle famiglie lontane e di quello che avevano lasciato fuori che certe volte tornava ed era normale la malinconia. E la nostalgia, anche. Ma la preghiera e il desiderio di spiritualità erano più forti, in ciascuna di loro. Era questo il luogo dove ha fatto il noviziato, che forse mi sarei fatta suora pure io, forse dico. Un luogo di gioia, di pulizia, di ordine. Che la prendevo in giro, quando riuscivamo a sentirci e le dicevo che sembravano studentesse in gita. E mi piaceva tanto la sua gioia e ammiravo la sua determinazione e mai ho percepito che vacillasse. Ha fatto carriera, ha ricoperto e ricopre ruoli importanti nel suo Ordine e ogni tanto ci sentiamo.
Ultimamente di più, perché ha avuto qualche problemino di salute, poi ha fatto Covid e aveva bisogno di consigli. E allora ci siamo ricordate di quei pomeriggi, e di tutte quelle botte che quella santa donna di sua madre le aveva dato quella volta e che lei aveva accettato come una specie di penitenza, perché aveva un disegno, già sapeva che non avrebbe cambiato idea e aveva solo fatto finta di aspettare. E rideva quando io dicevo che manco santa Teresa, che si prendeva in faccia gli spruzzi della suorina di fianco quando lavavano i panni, ma quella era acqua saponata, non ceffoni. “Non fa niente, aveva paura di perdermi, l’ho perdonata. Mi ha chiesto scusa, si vergogna tanto che non ne abbiamo mai parlato”, ed era dolce mentre lo diceva e io pensavo che forse non ne sarei stata capace.
E mi chiama ogni tanto “Come sta la mia amica?” Parliamo di noi bambine, del suo fidanzato che ogni tanto sapeva di cipolla e lui non sa che risate ci facciamo e se lo sapesse la sua autostima forse un po’ ne risentirebbe, soprattutto oggi che è presidente di non so cosa, e magari leggerà queste righe. E speriamo si sia ridimensionato, ma sappiamo bene che è difficile. Parliamo della violenza di cui tante suore sono vittime e che lei combatte parlandone senza nasconderla, né negandola e per questo si è fatta qualche nemico.
E parliamo anche di religione che lei vive in quella dimensione comunitaria che non mi appassiona, ma rispetto fortemente. Io vado in giro per chiese di montagna, quelle che fai fatica per raggiungerle e quando arrivi pochi orpelli, la nuda roccia e un silenzio maestoso nel quale i pensieri risplendono e prendono forma. Cerco, in solitudine, edicole votive e addirittura mi compro libri che ne parlino per trovarne sempre di nuove, e mi intenerisco davanti a quelle immagini corrose dalle intemperie e da quei fiori di plastica che non si possono guardare, ma apprezzo la mano pietosa e devota che li ha messi lì. E con Martina, che per la chiesa si chiama suor Benedetta, ne parliamo di questa differenza. Di come per lei la fede sia gioia e per me raccoglimento. Per lei servizio, per me riflessione. Per lei vita di comunità, per me solitudine. Per lei la Messa cantata, per me nemmeno l’omelia, grazie.
Eppure siamo amiche e ci vogliamo bene e quando sono pensierosa la chiamo e mi faccio coccolare dalla sua serenità che mi lascia intravedere sempre uno spiraglio, che non è mai un ottimismo cieco o infantile, ma la fiducia che solo chi ha avuto la fortuna di vivere il proprio destino può infondere nell’altro. Solo chi sa quanto è periglioso il cammino può indicare la strada, ma mai la scorciatoia. E quella stessa serenità mi rimane per giorni poi, come eco e rumore di fondo a rendere quasi fisica un’emozione del cuore.
Simonetta Molinaro, 2 ottobre 2022