Stato Donna, 25 settembre 2022. Si alzava la mattina alle cinque. Estate, inverno, sempre. Accendeva la caffettiera che era già pronta, perché quei minuti prima di bere il caffè le servivano per fare un saluto al sole. Ma niente filosofie orientali, o posizioni yoga. Non usava certo, e poi, non era cosa per lei. E’ che quando abiti in campagna il sole è amico, o nemico, ti condiziona le giornate, e la vita anche. E poi è parte del panorama, del contesto e ti viene spontaneo uscire, aprire la porta e rimanere lì, sulla soglia con il viso proteso.
D’estate, con i piedi nudi e un vestitino di cotone, con i fiorellini piccoli. Senza maniche, incrociato davanti. Amava il blu, e ne aveva tanti, tutti simili. D’inverno con le gonne a tubo e i maglioncini di lana, e gli stivali. Scendeva già vestita, perché dormiva sempre con una sottoveste di seta e non stava bene girare per casa così. E, anche se era buio, e freddo apriva la porta e, buttandosi sulle spalle uno scialle di lana morbida e calda, usciva.
Quei minuti erano tutti per lei. Ferma, dritta, a raccogliere energie, e pensieri. Rientrava quando sentiva il rumore del caffè che gorgogliava. Leggera, e silenziosa versava il caffè nella sua tazzina, e poi tornava sulla soglia, e lo beveva gustandolo a piccoli sorsi, perché durasse di più.
Io scendevo con lei, anche se avevo sonno. Mi piacevano tanto quei momenti. Mi mettevo sul divano e aspettavo, zitta, che lei finisse di bere il suo primo caffè. La guardavo e ammiravo quei movimenti morbidi con i quali si sistemava i capelli, nerissimi e mossi, dietro le orecchie. Aspettavo che mi preparasse il caffellatte. Lo chiamava così. Mi chiedeva ” Hai sonno?” “No no”. “Fai così…dormi cinque minuti mentre io arrivo alla bottega a prendere il pane fresco”.
La bottega era a duecento metri, ma prendeva la bicicletta, per far prima. E perché abitava tra la via Emilia e l’est, dove la nebbia, le zanzare, le biciclette sono patrimonio di tutti. Dove bisogna fare attenzione ai canali che corrono lungo le strade costeggiate da platani altissimi, quando si impara ad andare in bicicletta, che mia madre ancora se lo ricorda il bagno che aveva fatto la prima volta. Che poi, i canali proprio belli non sono.
Prima di uscire, anche per andare a comprare il pane, si metteva il rossetto. Rosso. E si pettinava. Piccoli gesti veloci, conosciuti, ripetuti anche ad occhi chiusi se necessario. Ma lei lo faceva davanti allo specchio del soggiorno, nella penombra delle mattine d’estate, con la luce che entrava dagli scuri semiaperti, o con la luce artificiale in inverno.
Quando, per uscire, indossava il paletot. Lo chiamava così, e non l’ho mai più sentita questa parola. Faceva in un attimo. Entrava con quel profumo di pane appena sfornato, quel pane dalla forma particolare e dal nome allusivo, “coppia” si chiama, perché sono due torciglioni croccanti uniti al centro da un cuore tenero. Lo spezzettavo, lo buttavo nel caffellatte e rimaneva un po’ croccante ed era speciale. E mai, in nessun albergo a cinque stelle ho fatto colazioni migliori.
”Cosa vuole mangiare a pranzo la mia bambina?” mi chiedeva quando avevamo finito. “Fai tu nonna”.”Va bene, allora ti faccio una sorpresa”. La sorpresa me l’ha fatta anche quando preparavo la maturità. Arrivò una mattina, con il treno, e nessuno lo sapeva. Entrò, con la sua valigia un po’ antica, con il rossetto rosso e i suoi capelli mossi. Qualche chilo in più lo aveva preso, negli anni, ma per me era sempre splendida. Sorridente. “Nonna! Che fai qui?”.
“La mia bambina deve studiare, serve un po’ di energia, e un po’ di compagnia”. “Un po’ di energia” significò ciambelle al limone, crostate di frutta, zabaione, e quel pane che mi aveva portato, e che custodivo gelosa nel congelatore, strappandone un pezzettino al giorno, perché durasse il più a lungo possibile. “Un po’ di energia” significò anche tre chili in più, e il vestito che stringeva, il giorno degli orali. Ma erano tre chili di quell’ ingrediente segreto che si lancia con le dita, dopo averle baciate, e non glieli ho mai rinfacciati. Bella, dolce ed emozionata, quando le presentai il mio fidanzato, la prima della famiglia a conoscerlo.
“Arrivederci” gli disse quando arrivammo. La abbracciai forte, ridendo “Nonna, ma ci stai cacciando?”. “La mia bambina si fidanza, avrò il diritto di confondermi”. E poi dopo l’incidente. Arrivarono lei e il nonno, prima di tutti. Stettero prima in silenzio, a tenermi la mano. Il nonno mi faceva ridere, lei mi guardava. Prima di ripartire mi accarezzò la parte sinistra del viso e mi disse: “Non rimarranno cicatrici, stella. La mia bambina è sempre bellissima”.
E ancora sento il profumo della zuppa patate e sedano che mi preparò, tre mattine di seguito, mentre aspettavo Francesco. Che poi insieme ad una voglia pazzesca di arachidi che mi venne una domenica pomeriggio, è stata l’unica cosa strana che ho desiderato. Mentre mamma, inorridita perché erano le sette del mattino, cercava di dissuadermi, nonna aveva già affettato il sedano e le patate, e guardava la figlia severamente.
“Che cosa ha chiesto di strano la mia bambina?”. E quando poi Francesco nacque, prematuro, al medico che mi diceva “Signora, la sua pancia era piccola” la nonna, sorridendo rispose: “Dottore, meglio così…si guardi intorno, il mondo è grande…avrà tanto spazio il mio bambino per crescere”.
“Il mio bambino” diceva tutto. Proprietà transitiva dell’amore. L’ultima volta che l’ho vista, mi ha fatto un’altra sorpresa. È morta prima che io riuscissi ad arrivare. Ma anche io bevo il caffè all’alba, davanti alla finestra. A piedi nudi. E non esco senza rossetto, e mi metto i capelli dietro le orecchie. Perché, comunque, sono la sua bambina.
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