Stato Donna, 17 settembre 2022. Sentirsi privilegiati nella malattia pensando di aver ricevuto come “un avviso di garanzia, a seguito del quale si può arrivare a capire di aver avuto l’opportunità di riportare ordine nella propria vita”.
Maria Rutigliano (a sin nella foto di copertina) si racconta così nel suo libro “Per i giorni persi”, scritto con il contributo della Fondazione Monti Uniti, in cui parla della propria esperienza con la diagnosi di tumore al seno, cominciata 12 anni fa, quando aveva temuto di perdere del tempo da dedicare alla vita, ma poi ha capito. Ed è scattata in lei una reazione, “una spinta a vedere chi sarebbe stato più forte, lei o la malattia”.
Da allora, la sua vita si è arricchita, paradossalmente, di incontri, momenti di riflessione, e di un nuovo percorso, quello da volontaria per il G.A.M.A., gruppo di auto e mutuo aiuto, “perché dare qualcosa agli altri aiuta ad esorcizzare la malattia”; e quello della scrittura, vissuta come “una strategia terapeutica molto efficace, per conoscersi, per prendere le distanze dall’angoscia e dalla paura, e come forma di autocorrezione”.
STATO DONNA ha voluto raccogliere la sua testimonianza in un incontro diretto con lei.
La sua gestazione è stata molto lunga. Principalmente direi che mi è sempre piaciuto scrivere. Ma non avevo mai trovato la forza di farlo. Poi ho incontrato Annalisa Graziano, giornalista che fa parte anche della Fondazione Monti Uniti, che mi ha spronato a raccontare l’esperienza della malattia vissuta in passato e quella attuale di volontaria.
Era quello il periodo in cui stava scoppiando la pandemia con le restrizioni alle uscite ed il lockdown: un tempo sospeso che a me ricordava qualcosa di già vissuto quando avevo ricevuto la diagnosi di tumore al seno.
È così ho pensato che era giunto il momento di scrivere partendo da un confronto tra le due situazioni di sospensione, simili tra loro, perché sia quando cominciai le terapie ed i controlli, sia durante il lockdown, molte giornate passavano quasi vuote, nell’impossibilità di fare tante delle cose desiderate. Ma ho scoperto, poi, che i tempi di sospensione, in realtà, non sono mai giorni persi, perché, anzi, diventano un’occasione di riscoperta.
Sì. All’inizio, l’ho vissuta con angoscia, smarrimento, sofferenza. Tutti la vivono così. Il dolore è asessuato ed è portatore per tutti delle stesse sensazioni e delle stesse emozioni. Nel mio caso, contemporaneamente a me si ammalava in quei giorni mio padre, della stessa malattia.
Vidi, dunque, in questo un segno che mi faceva prendere coscienza del fatto che, se volevo aiutare lui, io dovevo necessariamente reagire. Nella malattia, è un attimo, e ci si riscopre molto più forti e coraggiosi di quanto non si sia mai creduto. E si riesce a sopportare tante cose. In passato, per esempio, avevo vissuto una crisi di autostima e avevo abbandonato gli studi perché non credevo di essere all’altezza, dovendo poi realizzare che avevo sbagliato perdendo un’occasione. Adesso, nonostante tutto, mi stimo e mi amo molto di più.
Ossia, un cuore che ha deciso di non arrendersi, di non farsi prendere dalla paura e dall’angoscia e che sa rimettersi in piedi qualunque cosa accada.
Certamente. Quelle parole sono un invito a non lasciare spazio alle negatività, a rimanere propositivi, a non farsi prendere dalla paura.
Ognuno può darsi la propria strategia. Io l’ho trovata innamorandomi degli altri e cominciando a fare volontariato.Quando sono in ospedale, per dare una mano, io tendo a dimenticare tutto il resto, perché in quel momento conta di più aiutare chi mi sta di fronte, chi è nel bisogno. E sento, in quei momenti, che non posso farmi prendere dalla paura. E, se riesco a gestire questo in me, lo percepisco nello sguardo e nel sorriso di chi sto aiutando, e che trova in me energia pulita, come qualcuno mi ha detto espressamente.
Esatto. Servendo io ho superato anche quel senso di inquietudine che mi portavo dentro.Se si pensa che il volontario non viene pagato, eppure è appagato, perché non fa semplicemente il volontario, ma lo è. In profondità. Allora, si può ben capire quanto servire e dare siano decisivi nella vita.
Sì, mantenersi sempre con la mente rivolta alle cose belle della vita aiuta. E lo si può fare scacciando quei pensieri che ci inducono a scoraggiarci, a vedere tutto nero. Magari raccontando, parlando.
Io non dico a quelle persone di raccontarsi. Però, vedo che chi riesce a farlo, in qualche modo, può aiutare chi vive l’esperienza con maggiore riservatezza. Ecco, chiudersi, nella malattia, può essere deleterio. La malattia porta a questo, a sentirsi dei derelitti, degli esclusi dall’umanità. Quando io ho ricevuto la diagnosi, ho visto il buio dinanzi a me. Quando ho cominciato la chemio volevo scappare e non mi sentivo né tra i malati e né tra i sani. E questo lo provano tutti. Ma condividendo le proprie emozioni, si può dare la possibilità di far capire che non è così. Che tutti contiamo. Sempre. Io potrei dire che la mia fortuna è che sono una persona che riesce a raccontare, perché ho capito che nascondersi può solo fare male, nella malattia.
All’inizio del mio percorso di cure, io non avevo molte speranze. C’erano tutti i presupposti perché non ce la facessi. E, allora, come potrei non essere grata, oggi, a distanza di 12 anni da quei momenti?
In più, ho scoperto che la gratitudine migliora la vita. E così ho imparato ad apprezzare ogni cosa e a considerare tutto come una poesia per me.
Qualcuno che poi è stato attaccato, perché si è soliti vedere piuttosto il tumore come una condanna a morte. Invece, è qualcosa che va inquadrato e vissuto come una seconda chance; come l’occasione per riflettere e recuperare le cose che contano.
Solo di quelli per il futuro immediato. Per scaramanzia. Mi piacerebbe continuare a scrivere. Ed ho già nel cassetto molte idee. Inoltre, voglio continuare a sorridere, a fare qualcosa di bello per gli altri. Perché voglio lasciare qualcosa di me, di bello da ricordare.
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