Stato Donna, 10 settembre 2022. Seduta davanti ad un’alba che si crede d’essere un tramonto, infuocata e scura, avvolta in un plaid leggero che mi ricorda di essere a settembre senza dirmelo perché è ancora tutto troppo verde in questa valle, bevo il mio caffè amaro e bollente che non è solo una citazione ed un omaggio, ma è anche l’unico modo in cui concepisco il caffè la mattina. E poi, tanto.
Una caffettiera da tre, ma solo mia. È questo il momento per me, della giornata. Spesso l’unico. Quello in cui leggo i messaggi che non ho visto e che mi costano vocali di amici che reclamano vendetta o sequele di punti interrogativi, come a dire “Beh?”. Quello in cui leggo. Quello in cui mi prendo qualche raggio di sole, nel mio personale saluto che esprime la gratitudine per vederlo anche oggi e per goderne.
Il momento in cui i gatti sono tutti miei e reclamano carezze e attenzioni, Geronimo altero e attento a tutto sulle gambe e Riccardo vicino ma non troppo, perché anche se sono passati diversi anni, non dimentica di essere stato maltrattato prima che, un sabato mattina, non arrivassimo io e Francesco a portarlo via. E lui ringrazia continuamente, con la dolcezza che gli è propria, anche se ferita.
E Ginevra, che ha perso un occhio forse per un trauma, non si sa, ed è arrivata dalla Puglia una notte in un trasportino dell’Enpa. La dolcezza fatta gatto. E poi Rocco Schiavone sempre corrucciato che per questo si chiama così, abbandonato, lui vecchio ed infeltrito, davanti alla farmacia con una copertina come gli infanti nella ruota del convento. Saggio e riflessivo, non chiede mai nulla e può rimanere giorni senza mangiare se non ci pensi tu. Ed è diventato maestoso.
“Uno zoo, praticamente”. Cito con sentimento. E penso, guardandoli, che essere grato all’altro che si prende cura di te, che si ricorda di te, che ti accoglie e a volte ti raccoglie, è un viaggio andata e ritorno. È riconoscere l’uno all’altro la bellezza di essersi trovati, è sapere di avere un nome, un posto nel mondo, un compito da svolgere con dignità.
Che tu sia il gatto o chi ti salva dalla strada. Perché la cosa brutta è sentire di non contare nulla, di non essere importante, di non piacere a nessuno, di non saper far nulla. Tutte cose che diventano “non essere”.
Credere di non essere. Fino a quando a qualcuno non viene offerto il privilegio di scoprirti, di vederti. E allora ti vedi pure tu, e magari ti piaci anche, e prendi forza e diventi migliore e anche altri iniziano a vederti, a notare quello che eri anche prima. E quelli che sembravano difetti diventano punti di forza.
E adesso che inizia la scuola, quella scuola un po’ particolare dove insegno, vorrei dirlo ai miei ragazzi, quelli che sono difficili, complicati, emarginati, confusi, persi. Vorrei portare in aula i miei gatti per scalfire cinismi usati come scudi, silenzi come coperte, risate per nascondere lacrime, orgogli e appartenenze come bandiere. Dirò loro che di sbagliare può succedere, che si può tornare sui propri passi, chiedere scusa e ricominciare.
Inizierò io a vederli, perché poi si vedano loro e imparino anche a vedere gli altri. In un circolo che diventi un abbraccio.
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