Giovani

In montagna con Ercole a scoprire stelle alpine e a cantar d’amor

Stato Donna, 4 settembre 2022. Quando ho saputo che aveva avuto un infarto, ho pensato di non aver capito. Nella mia mente lui era un supereroe. Sarà che si chiamava, veramente, Ercole, sarà che era alto quasi due metri, non lo so. Sarà che, a dispetto della mole, aveva un passo leggero e delicato e arrivava che non lo sentivi e ti appariva davanti, con il faccione sorridente e quelle manone che a me mi sollevava con due dita, tipo gatto per la collottola. Con una mano me e con l’altra la figlia, mia amica.

Ci eravamo conosciute in montagna, noi e le nostre famiglie. Abitavamo in due case adiacenti e quando tornavamo a casa la sera, io e lei ci sedevamo sul davanzale della finestra delle rispettive camere da letto, quasi contigue, e chiacchieravamo a voce bassa fino a notte fonda. Oppure fino a quando arrivava Ercole, e ci diceva “Ma ancora a parlare di fidanzati? Sono le tre…Tutto ora vi dovete raccontare? Sciò sciò, ci diceva, dai che domani andiamo a camminare.” Alle sette, se toccava a lui, veniva a bussare con i panini caldi, e in cambio mamma gli faceva trovare il caffè appena uscito. Facevano a turno. Lui, mio padre, mio zio. Un giorno per uno andavano a prendere il pane giù in paese. E i salumi freschi, se era giorno di cammino. Perché in montagna, quando fai passeggiate come quelle che facevamo noi, non esci tutti i giorni. Andavamo in quota, con le corde, i moschettoni e le imbragature. E la cioccolata, mai sia l’ipoglicemia, della quale si preoccupava naturalmente papà.Vie attrezzate, ferrate, costoni di roccia da circumnavigare, o da prendere di petto.

Padri e figli. Tre padri e sette figli. Le mamme non venivano, aspettavano nei rifugi sotto, prendendo il sole, tenendoci d’occhio con il cannocchiale e mangiando Sacher ancora calde, appena sfornate, e talmente tante che una volta mia madre era pure diventata amica della signora del rifugio ed era andata con lei in cucina e avevano fatto una gara di torte.

Intanto noi arrampicavamo e vedevamo animali che di solito ammiravamo sui libri. Le marmotte, gli stambecchi, i daini, e invece gli scoiattoli ormai non li vedevamo più, li snobbavamo, troppo banali. Cercavamo poi le stelle alpine che non si trovavano mai e chi ci riusciva era troppo contento e sfidava la legge e le guardie forestali, che manco si potevano raccogliere e scendeva a valle dalle mamme stringendo in mano quel tesoro tanto bello quanto fragile, che le cose belle e rare spesso sono così, fragili, delicate e se non le maneggi con cura rischi di rovinarle e però se non le stringi un po’, rischi di perderle. E, infatti spesso, le stelle alpine non arrivavano dalle mamme che ci prendevano in giro e dicevano “Allora, ce l’abbiamo fatta?”.

Perché il problema era riuscire a prenderle, che certe volte le cose belle si nascondono in posti impossibili e per raggiungerle fai fatica, e noi non avevamo ancora uno straccio di telefono per immortalare il reperto floreale e per dimostrare che, quella volta, davvero le avevamo trovate. Chiedevamo aiuto ai padri che dicevano “Sì sì, certo” ma lo dicevano ridendo e nessuno ci credeva. Erano belle quelle passeggiate padri e figli. 

Mi hanno insegnato, tra le altre cose, il valore del silenzio. Perché quando cammini tante ore, il fiato ti serve, te lo devi conservare. E quindi non parli e pensi, pensi molto. Nel silenzio del tuo cuore, che diventa tutt’uno con il silenzio della montagna, ed è un silenzio maestoso, che ti abbraccia e ti rassicura. Non è mai come il silenzio che cala improvviso, quello che te lo gela, il cuore e che ti toglie il fiato, ma per altri motivi. È quel rumore ovattato, come se i pensieri fossero nella nebbia, con i contorni sfumati ma presenti, concreti, reali. Che poi ad un certo punto la nebbia si dissolve e tu vedi tutto. E lo vedi bene. Oggi provo la stessa cosa quando guido, che certe volte arrivo a destinazione e non so come ho fatto. Ma magari ho preso una decisione che rimandavo da tempo, oppure ho compreso una cosa che non capivo. Nel silenzio di una mente che immagina, progetta, sogna, decide.

Era questo che facevo, durante quelle passeggiate. Ma penso lo facessimo tutti, ciascuno nel proprio cuore. Ercole apriva la fila, mio zio in mezzo a noi ragazzi a farci coraggio e poi a farci ridere anche, mio padre la chiudeva. Era Ercole che dettava il passo, che ci indicava senza parlare gli animali, per non farli scappare. Mio padre controllava che nessuno si trovasse in difficoltà e, ogni tanto, ci allungava un pezzettino di cioccolata.

Poi, finalmente, arrivavamo in cima. Ed era allora che il silenzio ci travolgeva. Rispettavamo tutti quelle montagne, troppo belle, e uniche al mondo che non per niente poi sono diventate patrimonio dell’umanità. Ma allora, erano solo nostre. E scoprivamo ogni volta quanta bellezza si nasconda in un sasso, in una roccia fossile, in un albero, in un fiore che nasce dove non te l’aspetti, in un tramonto che spennella tutto di rosa, come in un mondo incantato.

E nelle persone, soprattutto. Spesso c’era una croce dove arrivavamo. Ci sedevamo per terra, tiravamo fuori i panini, e la cioccolata. E, sempre in silenzio, mangiavamo. Alla fine del pranzo, Ercole iniziava a cantare. Aveva una voce bassa, e profonda. Cantava canti di montagna, che aveva imparato da piccolo, quando andava in vacanza con i preti e i bambini dell’oratorio, e ancora se li ricordava tutti. Canti tristi che parlavano di addii, e di soldati, e di mamme in lacrime e di belle che aspettavano chi, poi, non sarebbe più tornato. Noi ascoltavamo ogni volta come se non li conoscessimo e una lacrima scappava sempre, a tutti. Anche a mio padre e a mio zio che lo seguivano nel canto, con le voci sommesse.

E adesso, anche, scappa una lacrima. Per gli alpini, certo, ma un po’ per noi e per i nostri padri che non ci sono più ma che, nel silenzio dei cuori, continuano ad indicarci la via e controllano che non ci accada nulla.E, magari, ogni tanto cantano.

Simonetta Molinaro, 4 settembre 2022

 

 

 

 

Simonetta Molinaro

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