Buon compleanno, Gianluca! Per me è un dono del cielo averti come fratello
Stato Donna, 21 agosto 2022. È, sicuramente, il più grande rimpianto della mia vita. Aver avuto un solo figlio. O meglio, che Francesco non abbia un fratello. Perché io sono sorella. Sono la brava sorella di un bravo fratello. Ed è, questa cosa, un dono del Cielo. Del quale io sono ogni giorno, ogni singolo giorno, profondamente grata.
Perché del tempo passato con mio fratello, ricordo tutto. Ricordo ogni singolo momento, ogni episodio, ogni fase della nostra vita. Di quando lui arrivò a casa, in una carrozzina blu, quella dell’Inglesina, con le ruote grandi e altezzose. Lui con le sue tutine, anche quelle rigorosamente blu, da piccolo lord, confezionate a mano, niente Chicco e Prenatal, e nemmeno quegli stilisti che, nei primi anni settanta, ancora non avevano scoperto il fascino ed il potere delle mamme e dei bebè, perché Instagram ancora non esisteva.
Una leggenda familiare ripetuta molte volte, ma solo tra noi quattro e solo per smentirla ridendone, raccontava di me, quattro anni, che molto seria chiedevo se non fosse stato possibile riportarlo indietro, quel bambino, che era ancora un estraneo in fondo.
Mi fu spiegato che non si poteva ma che, se l’avessi guardato bene, avrei scoperto che tutto sommato, non era poi così male. Iniziammo così a fare conoscenza. Lo vedevo alieno. Io, con i capelli talmente neri da avere riflessi blu, lui biondo. Scoprii che aveva dei buchini sulle manine, al posto delle nocche, e ai polsi delle piegoline di ciccia, che parevano dei braccialetti.
Ecco, era quel braccialetto ad inquietarmi. Perchè quella specie di nastrino azzurro era un segno tangibile della sua esistenza. “Che c’è scritto?” Avevo chiesto a papà. “C’è scritto Gianluca. E’ il suo nome. Avevi detto che ti piaceva”. “Sì, mi piace. E qui, che c’è scritto? ” “Il nome di mamma” .”E il mio?”. “Il tuo è qui, guarda. C’è scritto Simonetta, sorella maggiore”
Ipotizzo che fosse il nome dell’ospedale o del reparto o il numero della culla, ma era quella la risposta giusta. Credetti a mio padre, gli ho sempre creduto ciecamente. “Va bene, è giusto, lui è piccolo, io sono grande. Magari gli posso insegnare qualcosa“. “Certo. E lo devi anche proteggere, ricordatelo a papà.”
In realtà, eravamo noi alle volte a doverci proteggere da certi suoi esperimenti. Tipo quando costruì, a sei anni, delle bombe molotov artigianali, nel salone di casa, dietro le preziose tende di lino di mamma, usando bottigliette di succo di frutta alla pera e sottraendo l’accendigas della cucina, unico motivo per cui ci accorgemmo della cosa.Oppure quando decise di addomesticare, in montagna, un ragno. Arrivò, ad un certo punto, con la sua faccia angelicata, e chiese “Ma i ragni neri e pelosi, sono velenosi? No, perchè forse mi ha morso.”
Lui, di corsa all’ospedale con mamma, io con mia zia e i miei due cugini, tutto il pomeriggio seduti davanti casa ad aspettare o la ferale notizia della sua morte per avvelenamento, oppure il suo ritorno. Tornò e sceso dalla macchina, soddisfatto, disse “Non è vero che mi ha morso, volevo vedere che faceva mamma.”
Mamma, una santa donna. Che non batteva ciglio. “E’ una fase, passerà.” Ripeteva serafica. Aveva naturalmente ragione. A me queste cose lo facevano diventare sempre più simpatico, perché ho sempre ammirato questa sua libertà, incosciente e un po’ spavalda, anche, che io ho conquistato un po’ più tardi. Così come quando certi pomeriggi usciva, alle medie. “Dove vai?” “A fare a botte con Russo”. “Ma perché?” “Perchè non si insultano le sorelle”
Che poi, la sorella insultata ero io.E mi ricordo anche certe notti. Notti quando, tornati dalle rispettive Università per le vacanze di Natale, rimanevamo in cucina a chiacchierare, a raccontarci cose, a progettare. Notti passate a ridere, senza reali motivi. Notti a mangiare cannoli rivestiti di cioccolato fondente per non diventare mollicci, ripieni di ricotta con la buccia d’arancia grattugiata, preparati da mamma per il pranzo di Pasqua. Santa Citrosodina a seguire, e niente dolci per i parenti.
Notti in bianco. Come quella prima del mio matrimonio. “Ti sposi”. “Già” “E’ l’ultima notte che dormiamo insieme” “Sì, ma saremo sempre fratelli, no?” Lui, il mio testimone di nozze. Io, la sua. I nostri figli. Che sono figli, e non nipoti. Francesco, per lui. Ludovica, per me.
E poi, quella notte. L’ultima di nostro padre. Lui che, prima di entrare in coma, ti ha aspettato, per salutarti. E poi, tutto finito. Ore, ad aspettare. Piangendo e pregando. Fino a quando mi hai detto “Vai a casa. Porta via mamma. Rimango io con lui.”
E posso solo immaginare come sia stata quella notte. Quanto avrai pianto, quanti baci gli avrai dato, quanto forte gli avrai stretto le mani. Quella notte tutta vostra. Di dolore, certo, ma anche di tutte quelle cose che non vi eravate mai riusciti a dire, per mancanza di tempo. O per pudore, magari.
Non ti ho mai chiesto niente, e tu non mi hai mai raccontato. Sei tu il custode dell’ultima notte di nostro padre, ed è giusto così. Da uomo a uomo. E’ morto cinque minuti dopo che tu eri andato via, quella mattina. Io, appena arrivata, ho fatto appena in tempo a fargli una carezza. Ho pensato, in quel momento e lo penso ancora, che ti abbia voluto risparmiare quell’ultimo strazio.
In fondo è giusto. Sono io la sorella maggiore e, comunque sia, ti devo proteggere. Glielo avevo promesso quel giorno. Spero di esserci riuscita. Buon compleanno, Gianluca. Mille altre vite, mille altre volte fratelli.