Stato Donna, 31 luglio 2022. Arrivavano in piazza immancabilmente ogni sabato mattina. Da due posti diversi perché con la scusa dei genitori anziani da controllare lui, e il figlio che sarebbe rimasto solo in città lei, non vivevano più insieme. Non si erano detti niente, almeno non direttamente. E facevano come se nulla fosse, ciascuno aspettando o temendo che l’altro parlasse e si dovesse poi arrivare ad un chiarimento. Solo che certi chiarimenti sono già scritti, e l’unico problema è la paura di chi deve chiarire.
Lei arrivava il venerdì sera, ma non si faceva vedere mai. Sempre in lotta con i chili, viveva un’eterna mortificazione che le conferiva un’espressione che io personalmente pativo, perché non la capivo in realtà. Mi sembrava come se volesse sempre attirare l’attenzione sulle sue sofferenze, ma io che sono cresciuta leggendo la biografia di Santa Teresa del Bambino Gesù, onestamente non mi impressionavo tantissimo. Soprattutto perché veniva da me in farmacia e quindi sapevo che era sana e questo mi pareva importante.
Certo, percepivo un disagio, ma non avevo elementi per capire cosa fosse e così un po’ mi scocciava quella faccia da martire che aveva sempre. Sempre quando c’era il marito nei paraggi, scoprii nel tempo. Quando lui non c’era lei effettuava una sorta di evoluzione che nemmeno i Pokemon. Comunque, passava in un attimo da Santa Maria Goretti a Barbarella. Non nei fatti ma nelle intenzioni, che non starei a processare, perché le carceri già scoppiano.
Forte delle sue rinunce rifiutava l’aperitivo che invece lui prendeva abbondante. Ordinava per tre, per galanteria e golosità, lo capii subito. Il bar era quello della piazzetta, sotto al faro bianco che a quell’ora era spento e faceva già scena solo con la sua bellezza bianca di calce che ogni anno prima di Pasqua, quando ufficialmente si apriva la stagione del turismo, il sindaco di turno faceva cazzafittare, come dicevano gli operai del Comune che lavoravano e quando facevano pausa mangiavano certi panini con la mortadella che a me si alzava il colesterolo solo a vederli, e bevevano a canna la birra di Taranto, gelata, che era troppo buona, e mi veniva in mente il mio fidanzato dell’università, che la citava tra i motivi validi per tornare a casa.
“Dottore’, cazzafittiamo che arrivano gli alti-italiani”. E la prima volta non sapevo se ridere o piangere o ridere e piangere, che poi mi sembrò la soluzione migliore. E mi sentii alto-pugliese. Il bar aveva i tavolini e le sedie di ferro battuto bianco, che sembravano ricamati e ogni anno venivano trattati con una vernice speciale, trasparente, che fino a quando non si asciugava faceva una puzza terribile che la brezza di terra portava in farmacia e io capivo che erano tutti in fermento, e anche le sedie dovevano essere perfette in quell’angolino accucciato tra due mari, dove la salsedine non era per niente gentile e bisognava lavorare per contrastarla.
Ma poi a fine maggio tutto era pronto e io mi sedevo accarezzando con le dita quei ricami candidi che riflettevano prepotenti la luce del sole, orgogliosa manco l’avessi passato io il flatting. Ormai ero parte del territorio, lasciavo la macchina aperta e nessuno la toccava, parcheggiata nel posto che mi riservavano e in estate nel giardino dell’albergo di fronte, sotto ad un pino perché quando fai 40 km per tornare a casa, devi trovare la macchina fresca; mi portavano il pane di grano duro ancora caldo, e il venerdì la ciambella con lo zucchero, perché c’era il mercato e il forno preparava più dolci “Scusate, invece di fare il fioretto mi fate peccare” “Dottore’, è venerdì ma mica è sempre Quaresima” diceva Mario, il fornaio che poi anche dove abito oggi il fornaio si chiama Mario.
Sapevano esattamente come mi piace il caffè e cosa darmi per accompagnare l’aperitivo. Così, quando il sabato mattina arrivavano, verso le 11,30, trovavo le mozzarelline piccole, le bruschettine con i pezzetti di pomodori gialli, le olive cotte con l’alloro, pezzetti di parmigiano e l’uva o le pere appena spruzzate di limone, o il melone gialletto. Il mio pranzo del sabato, con un prosecco che freddo scendeva a meraviglia, mentre ero seduta con un occhio alla porta della farmacia, pronta a correre se fosse arrivato qualcuno. Ma il tempo lento di quell’ora era lento per tutti, e di solito riuscivo a rimanere seduta un po’.
Guardavamo i turisti che loro si sentivano quasi indigeni, e ridevamo perché erano tutti un po’ uguali e distinguevi subito quelli che arrivavano dal porticciolo rispetto agli altri. Erano vestiti di lino bianco, qualche signore anche con le iniziali ricamate a mano all’altezza delle costole fluttuanti, al polso orologi grandi come bussole, e ai piedi scarpe di gomma, da barca, quelle che negli anni ottanta avevamo tutti senza avere la barca. E le signore con i capelli raccolti perché senza piega, con i camicioni di lino lunghi fino a terra, ma non quelli comprati sulla spiaggia perché loro sulla spiaggia non ci andavano proprio, si tuffavano nelle calette, dietro agli scogli. E ai piedi sandali gioiello bassi di cuoio, in nuance con abbronzature selvagge che poi avranno forse scontato nel tempo, con qualche ruga di troppo ma magari ne è valsa la pena.
Erano conversazioni innocenti, leggere, a stemperare la pesantezza tra di loro. Ogni volta mi chiedevo il motivo per cui continuavano una relazione che non comprendevo. Fatta di ironia che diventava troppo pungente per i miei gusti, un battibeccare continuo a chi so’ io e chi si’ tu, un rinfacciare cose antiche mai risolte, un rimestare nei sentimenti senza rispetto, un raccontare cose personali dell’altro senza chiedere il permesso. Ero molto a disagio.
Cercavo di eludere, fingevo di non comprendere la mia chiamata a dirimere questioni, evitavo scientificamente di prendere le parti di uno dei due, pregando che passassero in fretta quei quindici minuti e io potessi tornare nel mio rifugio, magari prima se qualcuno avesse avuto bisogno. E invece mai perché anche chi mi vedeva, seduta al bar con il camice, rispettava quella breve unica pausa che mi concedevo. E così mi toccava ascoltare quei due che si rinfacciavano cose senza senso. “Hai steso i panni sotto al sole, lo sai che non voglio”, “Allora stendili tu la prossima volta”. “Ho comprato il prosciutto e te lo sei mangiato tutto tu, neanche una fetta me ne hai lasciato” “Avevo fame, te lo ricompro”. “Fatti più in là che mi arriva l’aria del condizionatore” “No, tu vuoi solo farmi spostare”.
D’estate raccontavo queste conversazioni a Caterina e ad Archimede sotto al gazebo di palme, mentre bevevamo caffè senza soluzione di continuità la domenica mattina, e dicevo loro l’amaro che mi rimaneva quando andavano via, sempre insieme. Mi pareva veramente come se rimanessero uniti per farsi del male, stretti in un amore che era stato ma ora non sembrava altro che un coltello da affondare, un eterno e continuo richiamo di quello che ciascuno secondo l’altro aveva commesso, un compiacersi reciproco del proprio e dell’ altrui dolore, l’incapacità di staccarsi per rabbia.
Guardavamo Archimede che ascoltava in silenzio sorridendo ogni tanto a Teresa che leggeva all’ombra, un po’ distante, rispettosa di quei momenti che io e Caterina aspettavamo per un anno. Volevamo le risposte da lui. Che, scalzo e con i capelli lunghi, sembrava un santone uscito da una grotta e glielo dicevamo ridendo sgangherate e felici di essere lì con lui. È il dolore che li unisce, ci diceva. Nel dolore che si infliggono si sentono più vicini, all’uno serve il dolore dell’altro, si scambiano il coltello perché solo chi ha una lama piantata da qualche parte, quando tocca a lui il manico sa quando fermarsi, o girare per infliggere più dolore. Senza dolore non saprebbero cosa fare.
Il dolore dell’uno che continua nel dolore dell’altro. L’uno che accoglie il dolore dell’altro, forse è cominciata così, dice. Forse uno cercava di alleviarlo quel dolore all’inizio, e poi sono diventati questo, fusi ma separati, a gridare quello che sembra più solitudine e vuoto, e gridi per te stesso, non perché credi veramente che qualcuno ti possa aiutare. Sono ancora insieme. Li sento ogni tanto e sono sempre uguali. Compiaciuti ed arrabbiati, rinchiusi nella loro storia che non ha bisogno di giudici e nel loro amore che è solo loro. Se quello è.
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