La nostalgia del mare sotto casa non guarisce mai, anche se ci posso tornare
Stato Donna, 24 luglio 2022. Era l’ultima settimana di agosto, la più bella dell’estate. Seduta sulla riva sentivo l’aria carica di mare e, con il viso proteso verso l’alto e gli occhi chiusi, respiravo quell’aria e quell’acqua. Erano tre giorni di vento, quel vento forte e prepotente che arriva dal mare e rende ricci i capelli e bianche di salsedine le sopracciglia e le ciglia. E salate le labbra, e la pelle. E profumate. Quel profumo che sento anche qui, e ora. Nonostante i settecentoventi chilometri e i venti anni di distanza.
Le giornate, più corte, diventavano buie passando attraverso tramonti spesso cattivi, con un vento che schiaffeggiava perché diventava freddo, e serviva un pareo con cui ripararsi, mentre si stava lì, ancora un po’.Perché era difficile staccarsi, andare via, tornare a casa. Erano gli ultimi giorni d’estate, e si iniziava a fare il conto alla rovescia. Si pensava al ritorno, ai nuovi inizi, che non si chiamavano ripartenza, e nemmeno sapevamo che esistesse, questa parola.
Respiravamo lo iodio insieme al vento, ed entrambi ci agitavano, ma un po’ era anche la scusa per giustificare quella tristezza, il senso di vuoto, di abbandono che, ad ogni fine agosto, arrivavano. Quando si percepiva l’assenza. L’assenza di tutto quello che per due mesi avevamo vissuto. Tutto quello che ci aveva tenuto compagnia, che aveva dato un senso ai giorni afosi, alle notti stellate, e a quelle senza luna che un po’ erano buie e un po’ illuminate da quel faro gentile che sovrasta la piazza del piccolo borgo. Ancora mi manca il rumore del mare la notte, più di tutto.
E quei colori. Che ammiravo senza stancarmene, mentre ogni giorno alle due del pomeriggio percorrevo quaranta chilometri di stradine interne, strette, vie brevi per raggiungere la farmacia. Perché anche chi vive vicino al mare lavora e io le ferie le prendevo alla fine dell’estate. Mi piaceva l’aria di quei giorni, e la malinconia. Che arrivava puntuale. Attesa. Ed era una malinconia dolce, che faceva compagnia. Che raccontava di desideri da pensare, da capire come realizzare, momenti da trascorrere in silenzio, sotto la falda di un Panama bianco, con un nastro rosso, a guardare lontano, dove il mare sembrava finire geometrico e perfetto, confondendosi con un altro, di azzurro.
Profumava di olio di Monoi e sapeva di cocco fresco cocco bello, da sgranocchiare sotto un gazebo di lino bianco, quella malinconia, che poi si trasformava in sorrisi pacati e silenziosi, ma sicuri, perché chi l’ha detto che la malinconia debba per forza fare piangere? Era un’emozione serena, che guardava al futuro, quello immediato, vicino, pieno di cose da fare, e nello stesso tempo percepiva l’assenza, il vuoto che inevitabilmente sarebbe arrivato, ma era un’assenza piena. Piena di tutto quello che c’era stato, che la rendeva meno dura e più amica. Perché con l’assenza è sempre così. Il primo momento è il più brutto.
Se non lo sapevi e ti assale all’improvviso, cattiva e traditrice. Se invece te l’aspettavi, è il momento prima, l’attesa dell’assenza, ad essere terribile. Ma come sarà l’assenza, dipende da quello che è stato prima. L’assenza di una presenza reale, tangibile, importante, si accetta e si supera meglio, perché la memoria, il corpo, l’anima, il cuore, saranno così pieni di quella presenza, dei suoi profumi e dei suoi sapori, da renderla ancora vicina, e vera. Si nutre di sé..
L’assenza di un’assenza è, invece, un dolore sordo e profondo. È il desiderio di ciò che poteva essere e non è stato, l’illusione di un sogno sfumato, il rimpianto di parole mai pronunciate, e di baci non dati e non ricevuti. È l’incompiutezza, la consapevolezza di una cosa lasciata in sospeso, la tristezza di non aver potuto chiedere, o spiegare. Il silenzio, che ferisce. E ci si abitua con fatica, a questa, di assenza, perché si vive la speranza che le cose cambino, e che tutto diventi bellezza.Quella bellezza di cui anche quella tristezza è espressione. Senza, magari, esserne ancora consapevole.