Il “pori Carlo” ne aveva vissute tante ma per il Covid piange, e spiazza pure me

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Foto: mbnews.it

Stato Donna, 17 luglio 2022. Lo guardo, seduto sulla panchina di legno sulla strada che porta su alla chiesa. È invecchiato, lo vedo da qui. Curvo e sordo, non l’ho mai visto, in quattordici anni, senza un sorriso anche quando cercavo le ragioni di un buonumore senza trovarle, ma solo prendendo atto di un carattere buono e gentile.

Le prime volte che entrava in farmacia diceva: “Le date qui le medicine al pori Carlo?”. Ma chi sarà mai questo povero Carlo, pensavo io e ci ho messo tipo un mese a capire che era lui il pori Carlo. Mi fece molto ridere e lo presi a cuore, intenerita da questo omone, anziano al limite della vecchiaia, che poi scoprii essere vedovo e con un solo figlio, un po’ fragile e ancora con lui. E l’ho anche salvato sul telefono così, che ogni volta leggo chi è e gli rispondo sorridendo, in una specie di corrispondenza di amorosi sensi, come diceva il poeta, e che poeta. Nel senso che mi viene già da sorridere e quella sensazione mi rimane poi addosso, come una copertina morbida che ti accarezza.

È qui perché ha la tosse e il medico me lo ha mandato per fare un tampone e sta lì, al sole su quella panchina, con la mascherina un po’ sghemba, mezzo naso di fuori e le manone a sistemarla dietro le orecchie. Ma ho capito che è preoccupato, perché trema e mi fa effetto. “Aspetta un attimo – gli dico – mi vesto e arrivo. Dove “mi vesto” vuol dire mi bardo con camice monouso, guanti, visiera. Irriconoscibile, se non fosse che le mie scarpe parlano sempre di me. “Ma sei te?” mi chiede mentre mi avvicino ed effettuo la manovra che ormai da due anni eseguo quotidianamente, cercando di essere veloce e delicata, pare con successo.

E tocca a me quindi dirgli che è positivo, e che appena svuotata la pipetta nel pozzetto è apparsa una linea fuxia, ma talmente fuxia che neanche Pantone l’ha ancora individuata. Non capisce subito, e mi guarda mentre io ripeto e devo quasi gridare, con buona pace dei decreti sulla privacy e la riservatezza che mi è propria, per non parlare del segreto professionale che urla vendetta. Ma non ho alternative. “Sei positivo, hai Covid” e sotto alla visiera abbasso la mascherina e glielo sillabo enfatizzando il labiale, mentre il pori Carlo mi fissa sconvolto.

E non mi aspettavo piangesse. Mi ha presa alla sprovvista, mi ha spiazzata. E contravvenendo a tutte le regole, gli tocco una spalla ma non basta, piange e dice piano: “Come farò?”. E allora lo abbraccio, mentre dentro di me insulto la pandemia e il virus e le restrizioni necessarie ma non sufficienti, cavolo proprio lui che non esce mai, e quando viene in piazza a fare la spesa scappa subito a casa. Ma basta poco, lo so.

Gli dico di rimanere lì, sulla panchina e scappo dalla dottoressa perché non mi piace quella tosse. Prendo la ricetta, il farmaco dalla cassettiera e lo raggiungo. Gli ho scritto su un bigliettino la posologia perché si dimentica le cose, ho visto. L’ultima volta che sono stata da lui aveva una stesa di post it, sul frigo e sulla porta d’ingresso. Scritti da lui, un po’ incerti e per questo più teneri, con liste di cose da fare, da comprare.

E poi “chiudi il gas” ho letto su un bigliettino in cucina e mi si è stretto il cuore pensando alla cura che mette nelle cose. E la ritrovo, quella cura, nelle parole che pronuncia mentre va via asciugandosi gli occhi e parlando da solo “Passerà”- dice- stringendo fra le dita da lavoratore il bigliettino che gli ho consegnato insieme al farmaco. So già che mi telefonerà, un po’ per sentirmi e un po’ perché dimentica tutto, figuriamoci la posologia del cortisone che lo “scalare” manda in crisi tutti.

La prima volta che sono andata a casa sua mi sembrava un dèjà vu: tutto quello che vedevo lo avevo già visto. I mobili in radica lucida e un flash: mio padre che aveva voluto comprare una Rover e aveva questi intarsi che mi ricordavano a loro volta un mobile vecchio del salotto dei nonni, a Foggia. Che non piaceva a nessuno se non a loro, e infatti quando sono morti e ognuno di noi, figli e nipoti, è andato a prendere un ricordo, piccolo o grande, quella vetrina è rimasta lì addirittura anche quando la casa è stata venduta.

E così, in un colpo solo, avevo fatto un salto nel passato, pensando a mio padre che si era tolto lo sfizio della berlina di rappresentanza, lui che da ragazzo faceva i rally e ha sempre guidato macchine sportive, tre porte rigorose stipando me e Gianluca dietro mentre, davanti, lui con i mezzi guanti di pelle e mamma con occhialoni e foulard di seta facevano i fighi.

Infatti la berlina, una bella che non ballava, con quei pezzi di radica che a me sembravano plastica durò pochissimo, e con un doppio salto carpiato passammo ad una Land Rover, che per noi due dietro non aveva neanche i sedili, ma solo delle scomodissime panchette. Vabbè, ne parleremo un’altra volta, ma sono bei ricordi.

E comunque il pori Carlo non aveva solo la radica, a riportarmi indietro. La coperta patchwork appoggiata sul divano ce l’aveva uguale la zia Gianna, nella sua casa di mattoni rossi oltre i platani, dove andavo con mia nonna, quell’altra. Quella dei tortellini, del rossetto rosso, del vestitino blu. Quella che mi portava in bicicletta e mi diceva “Non fare come tua madre che l’abbiamo ripescata nel canale”. Quella che faceva la ciambella nella pentola con la spina, e aveva sempre la caffettiera pronta. Quella nonna che ogni tanto arrivava all’improvviso con la sua valigia che profumava di pane ferrarese e ciccioli.

E poi la scrivania con la ribaltina, il secretaire, che lo so che si chiama così ma parlo italiano per vezzo e dico anche “buona fine settimana” come faceva mio nonno quello della scrivania anche se l’Accademia della Crusca ha sdoganato “buon fine settimana” ma non sono d’accordo e neanche mio nonno lo sarebbe e ad oggi nessuno mi ha mai corretta. E ha fatto bene, altrimenti mi parte la filippica sulla purezza. Ma divago, sarà l’età o i ricordi che si intrecciano e mi emoziono.

E nel suo bagno avevo trovato un set da barba e l’altro mio nonno, che si chiamava Carlo pure lui, ce ne aveva uno che teneva come una reliquia. Insieme ad una spazzolina per le unghie di non so quale materiale raro. E mi viene in mente una me bambina seduta sul bordo della vasca da bagno, che aveva i piedini e i rubinetti a forma di fiore, o così mi sembrava.

In silenzio, al tramonto, a guardare il nonno che si faceva la barba e poi si tirava indietro i capelli con la brillantina Linetti, si metteva una camicia bianca, una giacca di lino e poi andava al bar, sotto ai portici della piazza e ogni volta tornava a casa con un dolcetto per me, un cannoncino alla crema. Sempre. E anche oggi, quando lo trovo, lo prendo senza pensare alla dieta, al digiuno intermittente o alla prova costume che non mi hanno mai appassionata. Per fortuna. Perché i miei ricordi sono tutti profumati di cibo. Le persone che mi sono nel cuore hanno tutte condiviso con me qualcosa da mangiare, è imprescindibile.

Anche con il pori Carlo. Mi aveva telefonato una mattina mentre arrivavo in farmacia, con la scusa di una ricetta che non trovava. “E’ una brutta giornata, oggi” mi aveva detto. “Sono in crisi”. “Come mai?” . “Non lo so- mi aveva risposto- tante cose, troppe. Ma passerà”. Mi era sembrato un grido d’aiuto e così ero tornata indietro, mi ero fermata al bar e avevo preso due cornetti al cioccolato, che va sempre bene. E li avevamo mangiati in silenzio rivolti verso la valle di là, quella meno verde ma con spazi più ampi, sotto alla vite rossa del suo giardino quella che sta lì da sempre e dove lui e la moglie si sedevano a bere il caffè e a chiacchierare.

E poi, quando lei si è ammalata, era lì sotto che gli faceva le raccomandazioni per quel figlio ancora piccolo, che sarebbe cresciuto senza mamma e piangevano insieme e si abbracciavano disperati. E poi lei gli spiegava come si fanno le lavatrici di panni scuri e quelle di panni chiari. E il ragù, che la carne deve essere mista, altrimenti diventa troppo asciutto. E poi le discussioni sul latte o sul vino, da aggiungere prima del concentrato di pomodoro e su questo erano d’accordo. Concentrato e non passata. E mi raccontava queste cose semplici e così la crisi era un po’ passata, ma poco, perché il dolore non cade mai in prescrizione, quante volte lo abbiamo detto, e torna con i suoi cicli e i suoi corsi e certe volte è meglio assecondarlo che combatterlo.

Gli tenevo la mano quella volta e adesso invece lo posso solo salutare da lontano. Lui alla finestra e io davanti al cancelletto di casa, con la busta del pane in mano, un po’ di frutta fresca e qualche crostatina che gli ho preparato di notte. Mi sorride e io ricambio perché passerà pure questa, anche se ogni volta è sempre un po’ più fatica.