Adele aveva in sé tanta consapevolezza e tanto cuore, cioè coraggio
Stato Donna, 3 luglio 2022. Il paese non era tanto piccolo, eppure io la incrociavo continuamente. In inverno aveva sempre lo stesso giubbino, da quando ero andata a vivere lì, ormai da diversi anni, e da diversi anni era ormai fuori moda. Era un giubbotto di jeans, e nemmeno elegantemente, anni ottanta. Aveva una pelliccetta bianca e rovinata intorno al collo. Era proprio brutto, ma lo era già quando si usava e poi, una volta diventate amiche, mi è capitato di pensare che forse per questo la cugina se ne era velocemente disfatta. Ma allora, ancora non lo sapevo che era usato.
La vedevo dai vetri della farmacia, mentre attraversava la villa, ogni mattina, dopo aver portato i bambini a scuola. Andava dal marito, che lavorava proprio di fronte a me, e arrivava in ufficio molto presto. Andava a chiedergli cosa volesse mangiare per pranzo, prendeva i soldi, pochi, che lui le dava e poi si dirigeva con il suo passo svelto verso la piazza coperta, dove c’era il mercato della frutta e della verdura, quello che al nord si chiama il mercato delle erbe. Comprava solo le cose che lui le aveva detto, senza prendere iniziative e senza cedere alle tentazioni. Poi scappava a casa, a cucinare e poi di nuovo fuori, a prendere i bambini da scuola. Ogni giorno.
Abitavo in uno dei palazzi di suo zio. Una casa antica, con le finestre grandi, e i giardini d’inverno che sbucavano improvvisi, con le maioliche a terra, e i lavandini in pietra. Le scale ripide e la biblioteca e lo studiolo e la cucina con le tendine e le porte interne erano di legno color avorio e le modanature con la foglia d’oro. Che detto così sembra brutto e invece era elegantissimo e nobile. Come l’avvocato che mi affittava la casa. Che era poi il fratello del padre di Adele. Solo che lui era il primogenito.
Che nascere cadetto, nei primi anni del secolo scorso, era un po’ una disgrazia. Perché non era più che dovevi entrare nella Chiesa ma, soprattutto se la famiglia era comunque severa e ancorata al passato, non te la passavi molto bene. Così il padre di Adele era cresciuto all’ombra di suo fratello e non aveva avuto la forza di affrancarsi dalla famiglia, della quale aveva sempre cercato l’attenzione e l’approvazione, ma non era riuscito ad ottenere né l’una né l’altra. Aveva certo l’amore della madre, ma era quello che non aveva a mancargli. Era la stima del padre che voleva. E, seguendo un copione scontato, le sue scelte si erano sempre rivelate sbagliate e la sua vita sembrava essere piena di cose interrotte, o mai raggiunte o perse per un soffio.
L’università mai finita e abbandonata a pochi esami dalla laurea era stato il cruccio più grande per quel padre autoritario, che da quel momento aveva fatto fatica a rivolgergli la parola, anche quando gli dava i soldi per pagare i debiti di gioco che lasciava in giro, perché nessuno mai potesse dire che uno della sua famiglia, che aveva in tempi lontani, certo, governato quella città dove vivevano, non onorasse certi debiti. Pagava senza dire una parola e lui usciva dallo studio desiderando che lo insultasse, perché sicuramente gli avrebbe fatto meno male del disprezzo che sentiva in quelle poche frasi che scambiavano.
La storia me l’aveva raccontata una mia amica, moglie anche lei di un avvocato, quando con cura mi illustrava certe relazioni e certe dinamiche che io, forestiera, naturalmente ignoravo, e ridevamo e dicevamo che in quel paese c’erano più avvocati e chiese che in tutta la Puglia. Mi aveva parlato di Adele come di una specie di ingenua creatura e fui sorpresa quando invece poi la conobbi, per caso. Mi parve pacata, ma ferma. Dolce con i figli, gentile con tutti. Ansiosa quando parlava del marito e questo mi disturbava. Piano piano diventammo amiche. Così la storia me la raccontò anche lei.
Mi raccontò della mortificazione di essere invitati ai pranzi della domenica e di Natale e di Pasqua, per pura formalità, per non far parlare il paese. Mi raccontò delle cuginette, figlie del fratello primogenito, quello bravo, che le volevano bene con il cuore di bimbe perché Adele aveva anche da piccola un buon carattere e giocavano insieme e soprattutto una di loro si dispiaceva quando vedeva certe differenze. Quando ai compleanni, a lei arrivavano pensierini modesti, non scelti con affetto o perché in risposta a richieste precise, come fanno i bambini. Anzi, quasi la scelta voluta di non esaudire, deludere, punire per interposta persona. Quando a Natale a lei toccavano sempre i regali più piccoli e il pranzo era un supplizio perché c’era immancabilmente qualcuno a notare che il suo vestito era quello che indossava il Natale precedente la cugina maggiore, solo che ad Adele stava male perché era troppo magra.
E non era servito a niente a suo padre chiamarla con il nome della nonna, perché anche una delle cuginette si chiamava così, per una strana usanza del nostro sud, e così anche il suo primo nome era sistematicamente ignorato, per non confonderle, che per fortuna ne aveva altri due e aveva potuto scegliere. La ascoltavo, ed ero a disagio, soprattutto perché non mi arrivava nessun risentimento. Mi arrivavano una profonda tristezza e una specie di rassegnazione che da una parte mi facevano arrabbiare e dall’altra mi facevano riflettere. Non chiedeva, non lottava, non pretendeva.
Prima di Natale mi aveva chiesto di accompagnarla in un posto. Era un convento di clausura, uno dei destinatari della beneficenza che il suo generoso zio faceva. Lei era a mani vuote, ma la Superiora la accolse abbracciandola, aprendo la porticina della portineria e facendoci entrare. Lì dentro si trasformò. Era luminosa, e il giubbino di jeans con il colletto di pelliccia bianca non lo notavi neanche più. E neanche i capelli rovinati da tinture casalinghe di poco prezzo, e tagliati male da sola davanti ad uno specchio. E il rossetto, che era vecchio e si vedeva perché si seccava e si infilava nelle rughe delle labbra. Lì, non era la cugina povera. La nipote ignorata. La figlia amata distrattamente, che non aveva potuto studiare perché il nonno si era rifiutato di pagarle l’università dicendo che tanto era un po’ stupida, come suo padre, e avrebbe fatto la stessa fine, e non aveva neanche potuto lavorare per pagarsi gli studi perché altrimenti la gente cosa avrebbe potuto dire?
E non era neanche la moglie succube, che si vergognava del suo cognome, che non poteva usare il suo nome e nemmeno decidere cosa preparare per pranzo. Lì Adele splendeva della luce che le apparteneva.Lì raccoglieva le energie per resistere ad una vita troppo modesta, trovava la forza di accettare ancora, e sorridendo, i vestiti smessi di sua cugina, che le voleva sempre bene, e sempre lì recuperava la dignità per camminare a testa alta in un paese dove il suo cognome aveva un peso ed era stato umiliante passare per quella povera e anche tonta.
Lì raccontava la gioia di avere i suoi due bambini, ai quali insegnava comunque l’amore ed il rispetto per la famiglia. E l’importanza di studiare, per avere quell’indipendenza che lei desiderava più di tutto ma che non aveva saputo inseguire e si pentiva ma ormai era tardi, ma forse no perché la Superiora le aveva trovato un lavoro e lei era troppo felice.
Uscimmo e l’abbracciai. Perché io forse al posto suo sarei scappata molto tempo prima, ma non mi sentivo di giudicarla. Anzi, la rivalutavo. Non era la donna fragile che sembrava, la vittima sacrificale che poteva apparire. Non era andata via dal paese perché figlia unica di genitori un po’ sconclusionati, che non avevano nessun altro. E non lasciava il marito, di cui era stata innamorata e forse lo era ancora, perché c’erano i bambini ed un sacramento, e lei ci credeva ancora nel matrimonio e nella famiglia.
Capii quanta consapevolezza aveva, e quanto cuore. Cor, che ha la radice di coraggio, e in esso è anche contenuto. Perché ci vuole coraggio per continuare a sorridere con grazia anche quando dentro di te gridano la rabbia, e la vergogna e il dolore. Lavora ancora e i figli vanno all’ università e il marito continua ad ordinare il pranzo. E lei sorride e glielo lascia fare.
Simonetta Molinaro, 3 luglio 2022