A Santina restava solo il miracolo per un figlio distrutto dalla droga
Stato Donna, 19 giugno 2022. La vedevo passare ogni mattina, ogni mattina un po’ più curva. O mi sembrava. Facevo fatica a riconoscere la donna che avevo conosciuto dieci anni prima, quando ero arrivata in quel paese famoso per il suo vino e per quelle mura risalenti a certi secoli avanti Cristo.
Un posto dove d’estate il sole acceca riflettendo sulle chianche bianche ed irregolari delle piazze e delle strade del centro storico, che si avvolgono e si arrotolano sbucando sotto l’orologio o davanti alla Chiesa Madre che appare all’improvviso, di lato e ti devi mettere di traverso per ammirarne la facciata e fare contorsioni da ballerina di limbo per guardare il campanile che sembra pendere sulla tua testa.
Un posto dove il mare non c’è, ma ne senti l’odore in certe giornate di scirocco che te ne accorgi perché i capelli ti si arricciano e l’odore di salmastro è ovunque. Un posto dove mentre cammini in piccole strade con case basse senza soluzione di continuità, dove le finestre sono contigue e non sai quale appartenga a chi, ti arriva il profumo del sugo di pomodoro che sobbolle lento mentre qualche signora infarina pasta fatta a mano con un ferro speciale che lo vendono solo al mercato, il lunedì mattina, sperando che diventi callosa, e per questo ci vuole la tramontana che asciuga bene. E da quelle finestre arriva anche il profumo del pane di grano duro, che in questo periodo si prepara con la farina benedetta dai frati di Sant’Antonio che con il pane e i miracoli ci sapeva fare.
E questo voleva Santina. Il miracolo. Per questo ogni giorno mi passava davanti per andare a Messa o forse solo in chiesa, non lo so. So che attraversava la piazza davanti alla farmacia e la vedevo perché a quell’ora facevo pausa e guardavo fuori attraverso la vetrina del Supradyn, che in tre anni non l’abbiamo mai cambiata, ma questa è un’altra storia. Facevo pausa e bevevo il caffè. A volte facevo una corsa io al bar di fronte, dall’altra parte della piazza e a volte me lo portava la proprietaria del bar in persona, in una specie di do ut des, nel senso che quando entrava non voleva mai aspettare il suo turno e quindi il caffè era il cavallo di Troia.
Tutti lo sapevamo e tutti facevamo finta di niente, alla fine non era così grave. “Passa, passa -le dicevano- non ne tinimu piccinni da allattare”, non abbiamo bambini da allattare, possiamo aspettare. E sorridevo ascoltando la filosofia del mio Sud, che poi mio non era perché il mio Sud vero è molto più settentrionale, che la Puglia è lunga assai. Ma era mio di adozione e mi piaceva quella tolleranza un po’ gentile e un po’ ironica che scoprivo in tante cose.
E così la vedevo passare, con un passo da ragazza, svelto ma morbido, deciso ma gentile. All’inizio mi sembrava più giovane. Capelli corti, con un ciuffo mosso, sale e pepe per età e per vezzo, un viso sorridente con una fossetta a sinistra, e una linea invidiabile. Scoprii che da giovani andavano a ballare, lei ed il marito, almeno due volte alla settimana e poi alle feste, ed erano bravissimi e questo era tutto quello che sapevo di lei, perché quando sei forestiera ci metti un po’ ad incasellare le persone e le situazioni. Per questo quando mi dissero che fosse la mamma di Piero rimasi male. Perché Piero lo sapevo molto bene chi fosse.
Lo avevo conosciuto un giovedì pomeriggio. Sostituivo una collega che non stava bene ed era la prima volta che facevo quel turno, e per questo non capivo le facce tese degli altri. A metà pomeriggio iniziò la processione. “Una e una” dicevano, che voleva dire una fiala di acqua e una siringa, ma questo è un linguaggio universale che avevo già naturalmente appreso in altri luoghi. Quello che non avevo mai visto era la quantità di gente e mi spiegarono che il giovedì pomeriggio arrivava il carico e per questo in giro non c’era nessuno tranne loro, tutti quei ragazzi che aspettavano per farsi, ed erano tutti in preda ad una specie di delirio che aumentava se i corrieri facevano ritardo e la gente aveva paura.
Piero, che era alto e biondo, era anche il più cattivo e quel pomeriggio, siccome gli sembrava che ci mettessi troppo a dargli il resto, era saltato in piedi sul bancone e si era accovacciato davanti a me gridando, saltando via quando erano arrivati i miei colleghi per cacciarlo. In realtà non avevo avuto neanche il tempo per spaventarmi, ma lo avevo guardato bene per poterlo poi riconoscere. Scoprire che quella signora fosse sua madre mi dispiacque perché se sei capace di comportarti in un certo modo, non riuscivo neanche ad immaginare cosa potesse fare in casa. Me lo confermò Ida, la mia amica del negozio davanti alla Chiesa, quando le raccontai cosa fosse successo e di come la collega che avevo sostituito avesse chiesto di scambiarci il turno perché si era troppo spaventata quando aveva saputo.
Ida si era sdegnata per questa richiesta, parlando da sola a proposito del fatto che io avevo un bambino piccolo e la mia collega fosse “zitella” e quindi potesse, nella sua mente, rischiare più volentieri. “Chi se la piglia a quella, è brutta di coccia” mi diceva ridendo, mentre io cercavo di smentirla. E mi raccontò dei disastri che Piero combinava in giro, da bambino già. Risse, aggressioni, furti di auto e nelle case, non aveva preferenze, aveva solo la droga.
Aveva picchiato il padre non so quante volte, arrabbiandosi a morte quando la madre lo aveva denunciato, era scappato dalle comunità dove erano riusciti a chiuderlo, aveva riso come un Franti inconsapevole davanti alla mamma inginocchiata ad implorarlo di smettere, li aveva spinti, offesi, derubati, in una specie di copione che tanti genitori hanno vissuto e vivono magari nel silenzio e nell’angoscia. Santina, no. Raccontava perché voleva aiuto, perché aveva provato qualunque cosa, perché aveva un altro figlio cresciuto con quel fratello maggiore che spariva per giorni e poi tornava, distrutto, e dormiva settantadue ore di seguito per poi alzarsi ed uscire ancora.
E ogni volta la paura e il dolore crescevano e nessuno poteva fare qualcosa e Santina ogni giorno era un po’ più stanca e un po’ più curva e non si ricordava di quando lei e Vito ballavano abbracciati o, alle feste in piazza, lei ballava la taranta quando ancora era solo una danza popolare e non un successo di pubblico, e tutti la guardavano mettendosi in cerchio intorno a lei, battendo le mani a ritmo di musica. Esisteva solo il dolore cocente. Ma tutti le volevano bene e non la giudicavano perché sapevano che non fosse colpa sua. “È mala carne” dicevano di Piero e lei lo sapeva, li sentiva e piangeva con Ida, che pregava con lei davanti al suo altarino personale, in negozio.
A Santina era rimasto solo il miracolo, ormai. E non ho mai saputo cosa abbia pensato quando lo hanno trovato morto Piero. Dietro a quelle mura famose, in campagna, verso la chiesa di Sant’Antonio. Con una siringa piantata tra le dita, perché ormai le braccia e il collo non avevano più superficie da offrire. Santina non ha avuto il suo miracolo, solo un po’ di pace affogata nel dolore e nel silenzio di chi, al funerale, la abbracciava pensando che forse era meglio così, ma non lo puoi dire mai neanche alla madre del peggior figlio.
Non l’ho più vista, neanche quelle volte che sono tornata a respirare il profumo di vento e di mare che qui non trovo. E non chiedo mai, per rispetto di un dolore che non si può comprendere e di quelle lacrime dignitose che l’ho vista piangere.
Simonetta Molinaro, 19 giugno 2022