Quei giorni a casa di Rina, che seminava l’orto e sapeva del mondo

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Foto: dreamstime.it

Stato Donna, 12 giugno 2022. Abitava in una casa lontana da tutto. E io ci andavo una volta alla settimana, a portarle le medicine, ma soprattutto a controllare che stesse bene. Mi ero messa d’accordo con il suo medico, perché se ci andava lui più del normale, la Rina un po’ si infastidiva. “Sto morendo?” gli chiedeva, e lui ridendo le rispondeva che sarebbe morto prima di lei, cosa che in effetti è avvenuta davvero, ma sono cose che si dicono per esorcizzarle e per allontanarle, anche.

Mi ero trasferita lì da poco tempo e quello della consegna a domicilio ante litteram, era un modo per conoscere la gente che faceva fatica a scendere in paese, magari proprio per le distanze, o per abitudine, perché ci veniva un vicino di casa, e si affidava a lui il compito di passare dalla farmacia a ritirare quei farmaci che il medico aveva prescritto nella sua visita domiciliare settimanale che era, il più delle volte, l’occasione per una bella chiacchierata davanti al camino, oppure sull’aia, guardando magari quei tramonti pazzeschi, dove il rosa diventava arancio e poi giallo e poi nero, in un tempo brevissimo, lì sul crinale che si affacciava su due valli, ciascuna con il nome di un fiume, contigue ma diversissime, una con vegetazione lussureggiante, verde di tanti verdi, come tanti erano gli alberi di infinite specie differenti, e l’altra invece con teorie di campi di grano, che da lontano sembravano distese di oro.

Il dottore entrava in casa e pronunciava sempre le stesse parole “Ma che profumino…cosa ha preparato, Rina stasera?” Facendo finta di non riconoscere quell’odore, sempre uguale, di quella minestrina che sembrava povera ma non lo era, perché dentro c’era la verdura fresca dell’orto, che lei usava per preparare un brodino vegetale nel quale cuoceva la semola battuta, che impastava lei con le uova delle sue galline e con la farina che le portava una sua nipote, la quale aveva la passione per i grani antichi, quelli smarriti nel tempo e poi recuperati, e non si dimenticava mai di portargliela, quella farina profumata, bianca e un po’ grossolana, macinata a pietra che la semola battuta ci veniva proprio bene.

Così lei e il dottore, anzi il dottorino come lo chiamavano tutti, perché era piccolo di statura, ripetevano un rito antico che si consumava da quando lui, giovane medico che aveva appena preso la “condotta” era arrivato la prima volta a casa sua, con una Bianchina già sgangherata anche per l’epoca, arrampicandosi per quei sentieri scoscesi, che dopo un anno l’aveva dovuta buttare, per come si era distrutta. E mangiavano la semola battuta, come faceva lei ogni sera, da quando la sua mamma l’aveva svezzata. Una volta alla settimana, insieme. Lei, di lui, sapeva tutto. I dubbi, le paure, le ansie.

La doppia vita nella quale ad un certo punto si era ritrovato. La moglie, un’amante. Un figlio con l’amante. Non lo giudicava, lo ascoltava e poi lo consolava, accarezzandogli il viso e i capelli. Gli diceva “Non capisci niente”, e glielo diceva piano, con dolcezza, in dialetto, che non sembrava neanche un’offesa. E gli offriva sempre una soluzione, una riflessione. Lei che non era mai andata oltre il capoluogo, che leggeva e scriveva a stento, che nella vita aveva solo lavorato, sempre. Da ragazza, da giovane sposa innamorata, incinta, da puerpera, da mamma di quattro figli in sette anni, da moglie di un marito ammalato, da vedova, e poi di nuovo da mamma, stavolta con il nido vuoto ma senza sindrome, e da nonna. Aveva sempre e solo lavorato. Ma come fa?” chiedeva lui, “ad avere sempre le risposte, Rina? Ad essere così saggia?”

“Perché ho sempre fatto le mie scelte, dottorino. Non si diventa vecchi così, sai. Diventi vecchio, e sai le cose, solo se vivi. Solo se l’orto lo semini tu, e con la luna giusta, saprai quando è il momento di raccogliere, e cosa troverai lungo i solchi che hai scavato. La saggezza, poi…Non ho mai capito quei vecchi che vivono nel passato, e pretendono di insegnare il presente senza guardare al futuro.”

La guardava ammirato da quelle parole, che non erano magari proprio queste, ma lui ne percepiva così il senso. E capiva l’importanza di vivere il presente ma con il progetto del futuro, di assumersi la responsabilità delle scelte, di non far decidere agli altri le cose della propria vita. Seduto sull’aia con la Rina, si riposava dopo una settimana di lavoro, in un posto dove non c’era niente e il medico faceva il medico e l’infermiere, il dentista, il ginecologo, il consulente familiare, l’avvocato divorzista e certe volte, anche il veterinario, e lo faceva con tranquillità perché non c’erano i social e nessuno lo poteva accusare di esercizio abusivo della professione. Le raccontava di quello che succedeva in paese, certo che il segreto professionale fosse più che al sicuro, anche perché non serviva fare i nomi. Lei al volo capiva di chi stessero parlando e con pochi tratti gli suggeriva come dirimere la questione e le parole giuste da usare.

E lo attendeva con ansia, ma senza darglielo a vedere, la settimana dopo, per sapere come era andata finire quella storia. Ma non voleva che tornasse prima. Quelle poche volte che era andato da lei fuori dal giorno stabilito, era stato solo per darle brutte notizie, e lei ce le aveva ancora scolpite nel cuore. E, sempre seduto sull’aia, prese le decisioni più importanti della sua vita, quelle da ponderare, e delle quali mai si pentì.

La prima volta mi ci portò lui. Mi presentò come la dottoressina e ci fece molto ridere, me e la Rina che mi prese in simpatia subito, accogliendomi in quella casa resa buia dal grande portico sul davanti, che non faceva entrare troppa luce. Con il divano di pelle scura, e il quadro che raffigurava un gatto sulla parete di fronte, e il pendolo nero che ticchettava accompagnando i suoi passi e il rumore della credenza di legno che custodiva quei bicchierini di vetro verde, nei quali serviva il liquore alle amarene, fatto da lei, e d’inverno il vov caldo.

Era come se il dottorino me la avesse affidata, in una specie di silenzioso passaggio di consegne. Le raccontavo di me, dei dubbi, delle paure, delle ansie. E lei a me. Eravamo diventate amiche. Scappavo da lei appena potevo e certe volte la trovavo nell’orto, che raccoglieva le verdure e se le metteva nelle tasche del grembiule, e poi anche qualche fiore che infilava in certe bottiglie piccoline, sul davanzale delle finestre. E mi faceva il caffè e lo bevevamo senza parlare, sotto al portico. E sotto al portico dovetti dirle che il dottorino non c’era più. Si sentì male e pianse talmente tanto che non la volli lasciare sola, quella notte.

E continuammo a vederci una volta alla settimana per le medicine e un’altra volta senza motivo.  Così. Era diventata vecchia però, e un giorno me lo disse, affermando di essere pronta per andare, quando fosse giunto il momento, e che comunque era contenta di quello che aveva visto. “E cosa ha visto, Rina?” “Ho visto l’amore e la sua mancanza. E ho capito quello che dovevo capire”.

Simonetta Molinaro, 12 giugno 2022