Stato Donna, 22 maggio 2022. Quando sono arrivata a casa ho realizzato che sapevo solo il suo nome, a stento. Che mi aveva fatto sorridere perché si chiamava Bianca e la figlia Viola e l’altra Celeste. E mi faceva sorridere perché era incinta di un maschietto e mi ero chiesta come l’avrebbe chiamato, ma poi mi ero pentita perché non era cortese da parte mia, neanche sorridere tra me e me. Perché non giocavamo ad armi pari.
Eravamo in quella stanza di ospedale perché i nostri bambini si dovevano operare alle tonsille. Mi ero opposta all’intervento per diverso tempo e mi ero fatta convincere solo dopo mesi di nottate in bianco, seduta sul letto a controllare il suo sonno ed il suo respiro e a contare quante apnee facesse. Quel suono mi svegliava di colpo se per caso mi addormentavo e mi rimaneva poi nelle orecchie per tutto il giorno.
Poi quando il primario mi disse “Simonetta, sono troppo grandi, gli occludono il lume e poi gli hai fatto ‘sto naso minuscolo…basta una goccia di muco per riempirlo”. Insomma, troppo piccolo e troppo grandi. Vittima del senso di colpa che per definizione l’essere umano e le madri si portano dietro, cedetti e arrivammo in questo ospedale piccolo, di provincia per seguire quel medico che mentre mi insultava, mi accarezzava i capelli con quella mano che oggi diremmo po’ esse piuma e po’ esse fero, ma soprattutto perché mi conosceva da quando ero nata, e forse anche da prima, e di lui mi fidavo ciecamente. Comunque, in quella stanza Francesco ed io trovammo Viola e la sua mamma. Che sapeva di candeggina e aveva le mani rosse di chi strofina pavimenti non suoi e lava a mano nell’acqua fredda biancheria delicata di chi non ha il tempo per farlo da sé. O magari non ne ha voglia, ma questa è un’altra storia.
Viola e Bianca erano la tenerezza. La Tenerezza, anzi, come IL vocabolario di latino, lei che non aveva letto certamente nessun manuale della perfetta mamma, né mentre attendeva di diventarlo né quando lo era diventata. Lei che Instagram non era ancora nato e anche se lo fosse stato non avrebbe avuto il tempo di navigare e postare foto ammiccanti, e nemmeno di loro tre vestite uguali, che per fortuna “mini me” ancora non ce lo eravamo dovute sorbire, in tutte le salse e declinato in tutti i generi. Bianca non ha mai avuto troppo tempo per sognare, né prima né dopo.
La linea di demarcazione era troppo netta, tagliata con un colpo deciso da un’accetta affilata. Tenuta in mano dalla sua di madre, la quale quando aveva scoperto che sua figlia quindicenne fosse incinta, era come impazzita e con l’aiuto del figlio maggiore aveva iniziato ad ammazzarla di botte. Calci, pugni, fasce di cotone strette a nascondere la rotondità di quella pancia bambina che ne conteneva un’altra, che Bianca chiamava Rosa dentro di sé e che con le mani ed un istinto sconosciuto, cercava di proteggere in ogni modo.
Quando lui la teneva ferma e la mamma si accaniva a colpirla, o le infilava le gambe nell’acqua bollente per provocare un’emorragia che non è mai arrivata. Perché il paese avrebbe giudicato, implacabile. E lei, che veniva chiamata a lavorare in giro aveva paura che nessuno l’avrebbe più cercata. Questa la scusa, almeno. E se l’avesse scoperto prima l’avrebbe fatta abortire lei con le proprie mani, le gridava a bassa voce e a denti stretti mentre le tirava i capelli con tutta la rabbia che conosceva.
Piangeva silenziosamente Bianca mentre ricordava ad alta voce, ma si fa per dire perché non le saliva il fiato, nella saletta d’aspetto prima della sala operatoria. Un’infermiera gentile e silenziosa ci aveva portato un caffè rimasto freddo nei bicchierini di plastica della macchinetta, con lei che non riusciva a berlo per le lacrime e io nemmeno perché il mio stomaco si era chiuso davanti ad un dolore che, ad oggi, non so raccontare. Perché non stava piangendo un figlio morto, che almeno hai ricordi cui aggrapparti, struggenti certo, ma ce li hai, e ogni tanto ti fanno compagnia e ti consolano.
Non stava piangendo un bambino mai nato, per scelta tua che poi magari ti sei pentita e vorresti tornare indietro mille volte o per scelta del destino che fa male uguale, forse solo un poco meno. Bianca piangeva una figlia strappata. Che ha visto solo per cinque minuti, il tempo di guardarla e imprimersi nella mente quel faccino che un’altra mamma avrebbe baciato e quelle manine che un altro papà avrebbe stretto per insegnarle magari ad attraversare la strada. Un altro papà e non quello vero, che poi era diventato suo marito appena compiuti i diciotto anni e Rosa la piangevano insieme, certe notti più difficili.
E li guardavo mentre davano insieme il gelato post operazione a Viola che lo voleva al cioccolato anche se la prescrizione era al limone, ma lui ne aveva preso un altro, ufficialmente per sé e di nascosto da Bianca ne allungava un cucchiaino a quella bimba custode di un amore infinito. Promisi che avrei cercato di aiutarli a sapere qualcosa. Dimessi e tornati a casa, chiamai un avvocato. Anzi, un’avvocata. Lo specifico perché conta, in questa storia. Mi disse che lei poco credeva a questo racconto troppo melodrammatico e che comunque non si poteva fare niente. Confesso, non le ho mai più rivolto la parola e mi urto quando mia madre la nomina, perché amica di famiglia non lo è più, almeno per me.
Ma la devo ringraziare perché grazie al suo becero cinismo ho capito che volevo fare qualcosa per chi non ha mai voce, che bisogna rifuggire gli stereotipi di genere, e soprattutto che lavorare lo possiamo fare tutti, se ne abbiamo la fortuna, ma non tutti lo sappiamo fare. E ne parlo oggi perché per accompagnare mio figlio fui licenziata da una sostituzione che sarebbe terminata dopo tre mesi e fui lasciata a casa per telefono, dalla moglie del farmacista la quale ribadì che mai più una giovane mamma con un figlio piccolo, e poi perché, ad oggi, senza generalizzazione alcuna e nemmeno connotazione politica, ma veramente parlando di questa storia, per me ha più valore il lavoro di Bianca in ginocchio a pulire le fughe di cotto pregiato in ville lussuose, del loro, una che faceva la moglie del farmacista, e l’altra avvocata nota e sola in quella casa enorme, con le opere di artisti famosi esposte come in una galleria d’arte, ma vuota perché la sua unica figlia ha deciso di non tornare per le vacanze di Pasqua, esattamente come aveva fatto a Natale. E se la ferita di Bianca la conosco, quella sua no, ma la posso immaginare.
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