Stato Donna, 1 maggio 2022. Sembrava uscita da un film, quelli in bianco e nero dove le donne vestono gonne di flanella o di tweed, camicette di seta magari con il fiocco, come da manuale di bon ton, calze color carne di quel nylon che scricchiola tra le ginocchia quando sfregano l’una contro l’altra, che magari non sono neanche tanto magre e si toccano troppo. E poi le scarpe, mocassini senza tacco, nemmeno ingentiliti da una fibbia. E i colori. La gamma dei beige, in una declinazione che si intensificava, dal chiaro allo scuro, mano a mano che si scendeva dal collo verso le scarpe.
E la scelta dei tessuti raggiungeva la sua massima espressione nella ciniglia, che era già vecchia e fuori moda quarant’anni fa, e che si manifestava in giacchini corti, con bottoni in tessuto o gioiello, reperti di qualche merceria antica già allora, quelle con il bancone alto come le ferramenta e il metro di legno a misurare passamanerie e sbiechi. Quelle dove alle spalle della commessa c’erano dei cassettini minuscoli o delle piccole scatoline di cartone con i bottoni incollati sopra a ricordare cosa ci fosse lì dentro, che era bellissimo vedere le dita scavare tra quelle madreperle come nella sabbia, quella fatta di ciotolini piccoli piccoli e microconchigliette che ti lasciavano la mano fresca, pulita e profumata di mare.
Quelle mercerie dove le proprietarie stavano solo alla cassa e facevano i conti a mano su vecchi pezzetti di carta, che non butti via niente se hai fatto la guerra. Ed erano arcigne, con i capelli ricci ottenuti grazie a bigodini piccoli, quelli di metallo come gli occhiali a mezzaluna poggiati sulla punta del naso perché servivano per guardare solo da vicino, mentre per scrutare intorno, che nessuno trafugasse nulla, era sufficiente alzare lo sguardo che era sempre uguale, con le palpebre scese e le rughe intorno agli occhi, fiere di non usare le creme e il mascara, come se fosse una colpa.
Ecco, bottoni compresi, lei sembrava uscita da una di quelle mercerie che ormai non esistono più. Con i colletti di pizzo appoggiati sui maglioncini con le trecce, e quell’odore di borotalco che stona sui neonati, figuriamoci su una donna che ad oggi non saprei collocare in una fascia di età. E che, in venti anni non ho mai visto sorridere.
Era la bibliotecaria del paese dove trascorrevo le vacanze estive e quelle natalizie. All’ultimo piano del Comune, dove già dal piano precedente si respirava il silenzio che nessuno si sarebbe mai sognato di vìolare. Quel silenzio bello, pieno di pensieri e riflessioni, rassicurante perché scelto e voluto. Fecondo di idee che fino ad un’ora prima non si erano affacciate nella mente, ma che di colpo erano nostre. Le mattine d’estate ascoltavamo la musica con le cuffie e leggevamo ciascuno le proprie cose.
Chi era stato rimandato studiava e gli altri lo aiutavano ma poco perché lei ti guardava male e faceva “shhhh”, che la sentivano anche nell’altra sala, dove c’erano i testi universitari e quei ragazzi grandi che guardavamo con ammirazione, quando ogni tanto andavano fuori a fumare e noi li spiavamo dalle finestre e usavamo le matite come sigarette, tenendole tra le dita e tra le labbra. E ridevamo ma zitti zitti, nascondendo le teste sotto i tavoli, che sembravamo a scuola ma senza voti, e lei una prof severa, ma senza registro. Aveva sempre un’aria assente, come se fosse lì per caso, e invece quando prendeva la tua scheda per il prestito, ti chiedeva cose dei libri vecchi prima di leggere i titoli, che manco ti ricordavi tu di averlo letto, quel libro. E ti sembrava un’interrogazione e certe volte mandavamo i padri a restituire quelli nuovi, che quasi ti sembrava di dover portare la giustificazione perché non eri pronto.
Nessuno di noi l’aveva mai incontrata in giro, nessuno l’aveva mai sentita parlare ad alta voce e non sapevamo che accento avesse perché i bisbigli non svelavano nulla. Anche il suo nome era un mistero. Pensavamo vivesse in biblioteca, e non era così naturalmente e io sapevo che mia madre ogni tanto la incontrava al parco, in pausa pranzo, da sola. Dava da mangiare ai piccioni il pane che strappava con le mani riducendolo in briciole grandi perché, le diceva, magari hanno i piccoli da qualche parte.
Le chiedeva di me, se mi piaceva quel libro che avevo preso in prestito e si raccomandava di farmi leggere anche durante la scuola, che mia madre tra sé pensava che non bastava uno stipendio per comprarmi i libri, ma la assecondava e una volta le disse anche che in città frequentavo poco la biblioteca perché era troppo lontana da casa, e poi non era così bella come la “sua”. E mi aveva raccontato quanto si fosse emozionata, le era sembrato un complimento, e un po’ lo era, se conosco mia madre. Aveva un mondo dentro, ovviamente.
Eppure, ancora oggi, se penso a qualcuno di invisibile penso a lei. Alle gamme di beige che coloravano i suoi vestiti, e che noi erroneamente pensavamo fossero anche i colori della sua anima. Eravamo piccoli e in giro, in quel posto dove tutto era bellezza maestosa, vedevamo ragazze e donne alte, bionde, con camicie candide e gonne lunghe azzurre o rosse, vestiti della festa portati con orgoglio che nemmeno a noi cittadini sembravano fuori contesto e, anzi, qualcuno se li comprava pure.
Lei, invece, ci sembrava un fantasma. Eppure, mia madre che mi portava i suoi saluti, mi faceva sentire a disagio e non ebbi più voglia di ridere alle battute di noi ragazzini sciocchi per età. “E’ così sola”, mi diceva alimentando i miei sensi di colpa come solo le mamme sanno fare. Mi è rimasta dentro quella sensazione e da allora faccio caso a chi cerca di sparire, di rendersi trasparente. Oggi, poi, anche per lavoro, mi chiedo come mai. Quale sia il dolore che si cerca di nascondere, di evitare, di dissimulare, di dimenticare.
È difficile a volte parlare, se nessuno ti ha mai ascoltato. Tutte le cose che hai da dire sembrano poco interessanti e la voce non da’ corpo e forma a pensieri che turbinano. E che certe volte non riesci a mettere in fila, perché li vorresti esprimere tutti ma non sai come, se ti sembra di parlare da solo, e ti senti indegno custode di quel giardino che hai dentro, che ad un certo punto ti sembra anche inutile, perché che senso ha possedere tutte quelle rose se nessuno se ne accorge? Se non riesci a mostrarle a nessuno? E niente è più lontano da te di quel beige che si ostina a ricoprirti, nonostante il rosso e il rosa e il viola e il giallo e l’arancio che ballano e cantano nel tuo cuore, ma in play back.
Eppure, tutte le parole che si conoscono non riescono a trasformare il non detto in detto, il celato in palese, il silenzio in grida, l’invisibile in visibile, a prescindere da quello che dice il Piccolo Principe, che va benissimo, ma solo se sei risolto. Quando non si ha mai la forza di rendere atto la potenza, materia l’idea, fatto il pensiero, concreto diventa solo il dolore di non essere visti, lacerante come un urlo improvviso e spaventoso come il buio che non sappiamo affrontare ma che ci protegge dalla paura di vivere, che è la cosa che, forse, alla fine ci ucciderà.
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Ciao Simonetta, leggerti oggi mi riempie di profonda tristezza , il tuo racconto che corrisponde ad intermezzi della tua vita porta a riflessioni,meditazioni su di noi, su chi ci gravita intorno. Io credo che ci si senta spesso trasparenti, chi oltre noi può capirci, soprattutto chi è in grado di ascoltarci quando le attenzioni spesso sono solo rivolte egoisticamente al proprio io. Scusa tesoro se mi sono dilungata, posso aggiungere che ricordo benissimo le mercerie di allora, io facevo la " mistrina" come si dice in dialetto ferrarese, e la sarta mi mandava sempre a comprare o a far ricoprire i bottoni con lo stesso tessuto dell'abito, davvero piccoli gioielli.
Grazie tesoro ❤️ d'esserci, un abbraccio stretto stretto ❤️