Stato Donna, 24 aprile 2022. La prima canna l’ha fumata a quindici anni. Che poi a quei tempi si chiamava spinello e una pubblicità progresso diceva che sarebbe stata l’anticamera della droga, quella vera. E noi eravamo gente semplice e la droga era solo l’eroina e le canne, in confronto a quelle di oggi, erano acqua di fonte. E tutti avevamo una zia zitella che ci faceva le lezioni come fanno oggi i carabinieri nelle scuole.
E a me il carico lo aveva messo mio padre quando mi sono iscritta al Liceo, le cui scale d’entrata affacciano su questi famosi Giardini, che chi non li frequentava li chiamava Giardinetti, dove si spacciava, e lo sapevano tutti. Mi aveva raccontato, con dovizia di particolari, cosa succede a chi fa uso di sostanze, ai suoi organi, al suo cervello. Mi aveva talmente terrorizzata che non mi ha mai sfiorata la voglia o la curiosità, e anche quando mi sono trovata a certe feste universitarie, ho sempre fatto la parte della bacchettona.
Per fortuna visto che ho memoria vivida di una notte a Rubiera, e di una festa in una villa bellissima, con un parco principesco disseminato di vecchie vasche da bagno, quelle con i piedini a forma di zampe di leone, piene di ghiaccio e birra, e alcool. E di una Renault 4 non mia ma che dovetti guidare per tornare a casa, io e tre disgraziati sdraiati sui sedili che non sapevano più neanche come si chiamavano. E mi veniva da ridere perché raccontavano qualunque cosa e poi cantavano e uno piangeva e un po’ veniva da piangere anche a me perché nella mia mente si prefigurava la scena apocalittica della Stradale che ci fermava e poi telefonava a casa dai miei, alle quattro di mattina, per dire che la loro bambina invece di dormire nel suo letto di studentessa fuori sede, era andata alla festa del solstizio d’estate.
Comunque non successe, arrivammo nelle varie case sani e salvi e non ne abbiamo mai più parlato. Anche perché forse loro non ricordano completamente. Io però sono contenta così. Di non avere mai avuto la curiosità. Di avere avuto paura. E che, fino a quando non sono andata all’università, nessuno mi ha mai proposto niente. E credo nemmeno ai miei amici più stretti. A lei sì.
L’avevo conosciuta alle scuole medie. La sorella di una mia compagna di classe, più piccola di noi. Una bambolina trecce e gonnellino a balze, fino alla seconda liceo. Poi aveva conosciuto dei tipi, e uno in particolare. Giri strani, locali equivoci, le solite cose insomma. Dall’hashish all’eroina non è passato troppo tempo.
E la famiglia le ha provate tutte, hanno usato la dolcezza e le botte, l’hanno chiusa in casa, l’hanno portata al Sert quando si chiamava così, hanno assecondato, hanno fatto finta di ignorare. Le solite cose. La disperazione, i pianti, le suppliche, le grida. Lei scappava, tornava, prometteva e poi scappava di nuovo. E i genitori sempre lì, un po’ in piedi un po’ accasciati in mezzo alla tempesta.
Poi, quando a diciassette anni è rimasta incinta, hanno sperato che smettesse. E infatti ha smesso, poi ha ripreso e così ha fatto dopo quando è nata la seconda bambina, a lei che era ancora lei una bambina. E lui, il marito che nel frattempo si erano sposati, anche. Lavori saltuari e i genitori ad aiutarli, per le bambine che non hanno colpe. Una vita così. Con le sostanze che hanno fatto posto all’alcool e altri due figli arrivati dopo molti anni che, ad un certo punto sono stati portati via dai servizi sociali. Perché la ragazzina, a undici anni, è stata molestata dal padre di una compagna di scuola e il giorno dopo, in classe, l’ha raccontato. Per chiedere aiuto. Invece sulla relazione qualcuno ha scritto che la bambina era “seduttiva” e non hanno potuto fare altro che allontanarla.
E adesso sono sei anni che vive in una comunità. Lei e suo fratello, che ora è uscito perché maggiorenne, sono stati portati via a quei genitori che non erano in grado di occuparsi dei propri figli. Che hanno iniziato un percorso serio, finalmente. Che hanno smesso di drogarsi e hanno trovato un lavoro. Questo, da quattro anni.
E hanno recuperato il rapporto con questi figli, e con questa ragazzina che paga colpe non sue. Che vive lontana dai suoi fratelli, e da una casa dove finalmente adesso i letti sono rifatti, si mangia a pranzo e a cena, si festeggiano i compleanni e i Natali. Che lei invece passa in comunità e piange perché vuole andare a casa. E non capisce e si distrugge in questo dolore. E si ribella e per questo l’hanno spostata in un’altra sede, lontana da casa e per quattordici giorni non l’hanno fatta parlare con i suoi, e con le amiche, e con il fidanzatino. Le hanno tolto il telefono e, adesso, può comunicare solo attraverso il cellulare della comunità.
Tutto questo mentre i genitori si perdono nelle lacrime del senso di colpa, nella fragilità che è la loro condanna ma dovrebbe essere solo la loro. Perché i figli non sono pezzi di cuore, sono il cuore e ci pensa Maria quando si ricorda dei suoi genitori, che non ci sono più e non la possono neanche consolare o abbracciare come facevano quando tornava a casa, arrabbiata e arrogante, dopo una settimana che non si era neanche fatta sentire. Neanche una telefonata.
Come sua figlia ora, ma in una situazione così diversa. E sembra troppo a Maria, come punizione. E aspetta con ansia il mercoledì e il venerdì che si possono fare la videochiamata e si trucca e si fa i capelli perché vuole che sappiano che sta bene, perchè è vero, e va a lavorare, ed è cambiata. Chiede agli educatori “Quando possiamo venire?” Perché neanche a Pasqua gliela hanno fatta vedere ed è troppo tempo, ormai.
Ma la Pasqua è resurrezione e Maria dice “Chi è miglior testimone di me?” e non smette di piangere e la foto di Michela è la sua personale corona di spine e questi anni la sua Via Crucis. E piange. E aspetta una Pasqua sua personale e il perdono, quello vero. Quello di Michela.
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